Verso il cimitero scorre un fiume nero di persone; il coro è sempre quello: “presente”. Qualcuno alza il braccio, come se un gesto bastasse a rianimare un’epoca.
Che cos’ha di “post” un saluto che guarda solo indietro?
Il neofascismo replica i simboli; il postfascismo dice di esserne oltre, intanto li tollera come ammiccamento. Cambiano i prefissi, non la grammatica. Non è folclore: quando quei gesti diventano messaggio politico e minaccia, la legge li punisce; prima del codice, però, c’è l’alfabeto civile.
Ai ragazzi va spiegato che i simboli non sono souvenir: sono interruttori. Accenderne uno significa spegnerne altri: le storie di chi è stato cacciato, zittito, deportato. La memoria non è scenografia da corteo: è una domanda che riguarda l’oggi — chi escludiamo quando diciamo “noi”?
L’Italia sarà davvero “post” il giorno in cui nessuno sentirà il bisogno di farsi fotografare col braccio teso. Perché la democrazia non alza il braccio: tende la mano. Finché confonderemo le due cose, non saremo post di nulla: saremo pre di nuovo.
















