Prima il Vaticano, poi Palazzo Chigi. Viktor Orbán parla di “febbre di guerra” da cui tenersi lontani e promette di riferirne al Papa e quindi a Giorgia Meloni. Nel pomeriggio alza il volume: “L’Unione europea non conta nulla. Trump sbaglia su Putin; andrò da lui per togliere le sanzioni al petrolio russo.” Pace a bassa voce in sacrestia, geopolitica al megafono in piazza.
La domanda è semplice, ma non educata: si spegne davvero la febbre rompendo il termometro europeo e chiedendo l’aspirina a Washington? Perché se l’Ue “non conta nulla”, a chi restano confini, aiuti a Kiev, tavoli sul Medio Oriente? E se Trump “sbaglia su Putin”, perché la ricetta è comunque bussare alla sua porta? Il paradosso è qui: invocare moderazione e, insieme, svuotare l’unico perimetro comune in cui la moderazione diventa azione.
Si può non amare Bruxelles. Ma dall’anti-Europa non nasce un’Europa più capace: nasce solo meno Europa. E senza un’Europa che decide, gli Stati vanno in ordine sparso, le sanzioni si sfilacciano, la pace resta parola singolare, non verbo coniugato.
Alla fine, tra chiostro e comizio, resta una scelta di tono: la pace non si annuncia — si costruisce. E non con un megafono: con verbali, voti e vincoli che durano più di un post.
















