Il dissesto idrogeologico non è emergenza: è manutenzione rimandata. Piove forte e facciamo spallucce, come se l’acqua leggesse i comunicati. Ogni autunno l’allerta arriva puntuale, noi impreparati uguale.
Quante “emergenze” servono prima di chiamarla routine da prevenire, non talk show da commentare?
La sicurezza non si annuncia, si pianifica. La manutenzione si misura a calendario, non a conferenze. Argini controllati, fossi sfalciati, caditoie libere, piani aggiornati: ordinaria amministrazione, non eroismo del giorno dopo. I soldi esistono e hanno indirizzo preciso — PNRR e fondi regionali — ma senza rendicontazione pubblica e controlli indipendenti diventano slide. Il cittadino vede la differenza sotto le suole, non sotto l’hashtag.
Se non pulisci le gronde, l’acqua entra sempre. Servono capitolati con cadenze fisse, penali per chi non esegue, mappe di rischio aggiornate e visibili. Ogni cantiere di prevenzione vale più di cento sopralluoghi televisivi. Chi chiama calamità ciò che è incuria sceglie l’applauso, non la soluzione, perché basta sirene: aprite i tombini e chiudete i microfoni.



















