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«Una generazione perduta fra Boheme e Dolce Vita»

Gli artisti a Roma negli anni '60

Redazione by Redazione
17 Marzo 2014
in Senza categoria
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«Una generazione perduta fra Boheme e Dolce Vita»
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Uno scatto di Marco Amoroso e Matteo Carosi con Enrico Todi presso la Galleria Vittoria

 
Una breve e intensa inchiesta per chi fosse nostalgico di ambienti di forte fermento culturale, per chi volesse assaporare un po’ della Roma Sparita negli anni della Dolce Vita, voltare un momento le spalle a quella dell’odierna “grande bellezza” e ricordare, attraverso le memorie del gallerista Enrico Todi. Dopo averlo incontrato e strettogli la mano, a raccontarcelo sono Marco Amoroso e Matteo Carosi che qualche giorno fa si sono fermati a contemplare Via Margutta per raccoglierne un po’ della sua storia.
Roma. E’ già buio a via Margutta, le gallerie stanno per chiudere e alcuni turistifotografano felici la targa sull’abitazione di Federico Fellini e Giulietta Masina.
Una di queste gallerie, sopravvissute al tempo, è “Il mondo dell’arte”, uno spazio espositivogestito ormai da molti anni da Elvino Echioni. E’ proprio con lui che inizierà il nostrocammino a ritroso e di scoperta nella storia dell’arte romana.
La storia di Elvino è legata a un sodalizio professionale e umano con Novella Parigini.
Novella Parigini fu la figura di riferimento di una nuova generazione di artisti e iniziatrice di quella
che noi oggi conosciamo come “La Dolce Vita”.
Cresciuta da una famiglia aristocratica nelle campagne toscane, la Parigini si formò all’Accademia delle
Belle Arti di Parigi negli anni quaranta, immersa in quella “Boheme” di pittori e scrittori come
Jean Jenet, Jean Couctou, Salvador Dalì e Pablo Picasso.
Tra i discorsi interminabili con Jean-Paul Sarte e Simone de Bouvoir, facendo suo il pensiero esistenzialista
del tempo, la Parigini trasferendosi a Roma, diede una forma filosofica a quella generazione perduta,
che cercava di rinascere dalle macerie dell’Italia post- bellica. Questo mecenatismo dava vita a circoli aristocratici
e culturali facendo riemergere uno spirito rinascimentale che sopperiva la mancanza di un mercato dell’arte
dei grandi collezionisti e che permetteva l’esistenza di vite dedicate all’arte.
Così nacque quella Koinè culturale che contraddistinse la “scuola” degli anni sessanta e che si alimentò
dello sviluppo armonico delle varie arti che agivano in sintonia in un libero gioco tra loro.
I centri nevralgici e di incontro di queste varie esistenze erano inizialmentela Galleria Tartaruga di Plinio De Martiis e la Galleria La Salita, entrambe posizionate al centro della città.
Con i loro eventi culturali nascevano veri e propri momenti di confronto tra pittura e poesia:
gli artisti vi prendevano parte infervorati dal connubio felicità-lavoro e esternavano
la gioia del fare, per scoprire nuovi linguaggi e esprimere lo spirito artistico e umano
lontano dai valori del Realismo, distrutti dalla barbarie della guerra.
Tra i tavoli del Bar Rosati e del Bar Canova in Piazza del Popolo, nasceva il nucleo
di quelli che poi furono gli esponenti più importanti della scuola romana.
Franco Angeli, Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo
Rentano Mambor, Mario Schifano e Cesare Tacchi, artisti giovanissimi, tra i venti e trenta anni,
stilisticamente differenti tra loro, ma con un comune denominatore: l’espressione delle apparenze visive della realtà,
l’esperienza di spazio luce con Rothko e ancora quella di spazio- materia con Burri, usato come medium per una narrazione simbolica.
Come disse Mario Ceroli in un’ intervista che ricordava il clima fantastico che aleggiava intorno alla Galleria Tartaruga:
«c’era il Teatro di Carmelo Bene, la musica con Bussotti, Nono, Berio, c’era la letteratura con il Gruppo 63 con Eco, Barilli, Sanguineti.
Atmosfera di straordinaria creatività».
Tra Parigi e New York, c’era Roma e gli artisti della Città Eterna seppero assorbire il clima della città
creando uno stile in bilico tra opera e comportamento.
Di conseguenza molte identità artistiche mondiali facevano di Roma un punto di snodo fondamentale e come diceva
Mario Schifano: «c’è stato un periodo in cui non si poteva fare a meno di andare a Pizza del Popolo».
Sembrava di essere nella Parigi degli anni venti che Hemingway descrive in Festa Mobile.
I primi ad arrivare dopo pranzo erano i poeti: Sandro Penna, Elsa Morante e Alberto Moravia bevevano un caffè da Rosati,
da via del Corso con stivali camperos, pantaloni a zampa e Ray Ban a goccia spuntavano i tre maledetti: Schifano, Festa e Angeli,
quasi sempre accompagnati da donne bellissime come la Pallemberg e Marina Lante e al Bar Canova Fellini, la Vitti e Mastroianni
ridevano davanti a un Martini e il Gruppo ’63 veniva fuori dalla Feltrinelli quasi sempre sede centrale di vari Happening
letterari.
Continuando la nostra “recherche” arriviamo al civico 103 di via Margutta, dove dal 1906 ha la sua sede la Galleria Vittoria
ancora oggi portata avanti dalla famiglia Todi.
Ad accoglierci è Tiziana Todi che ci fa accomodare nel retro della galleria dove, tra busti di marmo e quadri di vari autori,
Enrico Todi ci dona le sue memorie.
Enrico incomincia con un excursus geografico della moltitudine delle gallerie che negli anni sessanta respirava nel centro
della città. Ci parla di lui e Fellini, dei primi quadri di Guttuso e di quanto egli fosse legato a una visione politica
dell’arte rispetto ai suoi contemporanei, sottolineando l’egemonia di una cultura di sinistra che si faceva
portavoce della divulgazione dell’arte stessa.
Continuando su questo percorso concettuale che sembra attirare maggiormente i suoi ricordi, ci racconta il clima
di guerra fredda delle arti tra la Pop Art americana e l’astrattismo russo e il realismo socialista,
in cui troverà la sua culla la scuola di Piazza del Popolo.
Questo guppo di artisti rappresenta però anche una discontinuità all’interno della storia della tradizione pittorica italiana,
tra il colorismo e il neo realismo che, se pur alimentata dalle continue influenze reciproche, dopo i molti viaggi
intrapresi soprattutto da Mario Schifano e Franco Angeli a New York e da Wharol e Twombly a Roma, però non risulteranno determinanti
su quelle che saranno le caratteristiche peculiari del movimento romano.
Come disse Tano Festa: «è ora di dare un taglio a questa storia del trio Lescano, in quanto tutti siamo cresciuti e abbiamo
preso strade diverse. Piuttosto che di scuola di Piazza del Popolo, unicità di intenti artistici e di stile,
io direi che al Caffè Rosati negli anni Sessanta i diversi pittori che li si sedevano, sperimentavano una nozione felice,
etica della libertà artistica».
Questa unione artistica si declinava però in diverse anime: Angeli portava i simboli dalla strada all’arte
come svastiche, falce e martello e aquile, che alimentavano la sua creatività rendendolo
il più politicizzato del gruppo. Schifano si serviva dell’Informale senza però farne abuso, con date inserite
all’interno delle opere e colori monocromo. E infine Tano Festa che giocava più sul piano culturale che su quello pittorico
delle immagini, rappresentando caratteristiche peculiari che si allontanavano dal pop internazionale.
Abbandoniamo quell’atmosfera del ricordo di una Roma romantica salutando il maestro Todi con una sincera stretta
di mano che ci ha fatto capire che quel gruppo di giovani era solo il riassunto delle caratteristiche
esistenziali di una generazione che ha voracemente vissuto quel felice momento a volte bruciando le tappe,
a volte bruciandosi nel farlo.
 
*di Marco Amoroso e Matteo Carosi
 a cura di Silvia Buffo
 
 

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