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Al Teatro “Del Vascello”, sino al 19 febbraio, “Le Baccanti”, l’ultimo capolavoro di Euripide

Nella tragedia, dramma e ambiguità: elogio della religione o invettiva contro i suoi eccessi?

Fabrizio Federici by Fabrizio Federici
15 Febbraio 2017
in Senza categoria
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Al Teatro “Del Vascello”, sino al 19 febbraio, “Le Baccanti”, l’ultimo capolavoro di Euripide
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Le-Baccanti-Euripide

Al Teatro “Del Vascello” ( che ha per direttore artistico Manuela Kustermann) è in scena sino al 19 febbraio, per la regìa di Daniele Salvo, “Le Baccanti”, di Euripide: allestimento prodotto dal Teatro stesso, da “La Fabbrica dell’ Attore” e dai teatri “Tieffe” di Milano e “Di Stato Constanta Romania” di Bucarest. Un allestimento, da un progetto di Daniele Salvo, che ricrea perfettamente l’atmosfera mistica, panica, di “ossessione-possessione”, tipica delle rappresentazioni di quest’ultimo dramma euripideo, nella Macedonia e nella Grecia del V-IV secolo a.C.
Scritta tra il 408 e il 406 a. C., alla corte di Archelao, re di Macedonia ( dove Euripide s’era ritirato, scontento delle reazioni, non sempre positive, del pubblico ateniese alle sue opere), “Le Baccanti” è, infatti, l’ultima tragedia del piu’ moderno fra i tre tragici greci (che morì poco tempo dopo averlo completato). Rappresentata una prima volta, molto probabilmente, appunto in Macedonia (dove la permanenza di Euripide alla corte regale sembra incredibilmente anticipare i futuri destini “greci” dei Macedoni, da Filippo ad Alessandro), poi ad Atene nel 403 a.C. (sotto la direzione di Euripide Jr.. figlio o nipote del maestro di Salamina) , “Le Baccanti” è un’ opera tanto grande per forza drammatica quanto ambigua nelle tesi di fondo. Se, infatti, il senso complessivo sembra essere quello, tipicamente greco ( vedi anzitutto l’ “Odissea”), della necessità d’ onorare tutti gli dèi, per mantenere con loro il giusto rapporto, la descrizione degli eccessi cui indulgono le Baccanti, donne invasate, sostanzialmente “possedute”, da Dioniso/Bacco (che arrivano, un po’ come bande di schiavi in rivolta contro il potere greco o romano, a squartare mandrie e devastare villaggi), ha chiaramente i toni d’ un’invettiva laica, quasi volterriana, contro gli eccessi della religione (Euripide è sostanzialmente un laico). La regìa di Daniele Salvo, oscillando abilmente trai due “registri”, fa capire agli spettatori gli opposti termini del problema.
Nel prologo della tragedia, Dioniso afferma d’ esser sceso tra gli uomini per convincere tutta Tebe d’ essere un dio, e non un uomo (non dimentichiamo che quelli dionisiaci erano culti misterici per eccellenza, alternativi a quelli classici degli antichi greci; e in un certo senso precursori di quelli che, molti secoli dopo, all’insegna soprattutto del pensiero massonico porteranno, in tutta Europa, un messaggio di rivolta religiosa e politico-sociale). A tal fine, egli per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che son fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando appunto Baccanti, donne che celebrano i riti di Bacco/Dioniso).
Tutto questo però non convince Penteo, re di Tebe: egli rifiuta strenuamente di riconoscere un dio in Dioniso, di cui è cugino (la madre è sorella di Agave, madre appunto di Dioniso; il padre, sarebbe addirittura Zeus), e lo considera solo una sorta di demone, ideatore d’ una trappola per adescare le donne. Invano Cadmo, nonno di Penteo (Paolo Bessegato) e Tiresia (Paolo Lorimer: l’ indovino cieco piu’ volte ricorrente nella letteratura greca) tentano di dissuaderlo e fargli riconoscere Dioniso come un dio. Il re allora fa arrestare lo stesso Dioniso (che si lascia catturare volutamente) per imprigionarlo, e sottoporlo a un duro interrogatorio (come non pensare, qui, a quelli cui sottoporranno Cristo, secoli dopo, Pilato ed Erode?). Il dio però scatena un terremoto, che gli permette di liberarsi immediatamente.
La fine sarà tragica: Penteo, convinto poi da Dioniso a travestirsi da baccante per capire meglio i propositi di queste “Lisistrate mistiche” , che sconvolgono l’ordine voluto dai maschi (la storica commedia di Aristofane è di pochi anni prima, 411 a. C.), muore smembrato dalle baccanti, anzitutto proprio dalla madre Agave (Manuela Kustermann, dominatrice dell’ultima mezz’ora di spettacolo). Mentre il suo corpo viene ricomposto dal nonno Cadmo e dalla stessa Agave, tragicamente rinsavita e consapevole dell’orrore commesso, dall’alto Dioniso fa sapere d’aver voluto così punire gli uomini, rèi di non aver riconosciuto la sua divinità. «Non è bene che gli dei rivaleggino nell’ira con gli uomini», rimprovera, a Dioniso, un Cadmo che quasi sembra precorrere, da un lato, dolorosamente, Epicuro, con la tesi degli dèi come totalmente indifferenti alle vicende umane; dall’altro, positivamente, il pensiero ebraico, cristiano e musulmano, che giustamente vede in Dio il garante supremo di bontà e giustizia in senso cosmico. Critica, questa, cui il dio non dà alcuna risposta, limitandosi a ribattere che questa è da sempre la volontà di Zeus. E, come in “Romeo e Giulietta” di Shakespeare, “Tutti sono puniti”.
Lo stesso Daniele Salvo, Simone Ciampi, Diego Facciotti, Giulia Galiani, Annamaria Ghirardelli, Melania Giglio, Francesca Mària, Silvia Pietta, Alessandra Salamida, Giulia Diomede gli altri interpreti: tutti all’altezza dei ruoli. Essenziale, quanto suggestiva, la scenografia: con un “montarozzo” in secondo piano, che ricorda certe celebri scenografie di Carmelo Bene o Aldo Trionfo. Un allestimento potente, tra Euripide e il Nietzsche della celebre “Nascita della tragedia” (ossessionato poi, sino alla vecchiaia, appunto dal mito di Dioniso).

Fabrizio Federici

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