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Home Attualità

Transessualismo tra scienza medica e giuridica

Quello che la transfobia non sa

Giovanna Spirito by Giovanna Spirito
16 Maggio 2021
in Attualità
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In occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Transfobia e la Bifobia istituita nel 2007 dall’Unione europea, proprio per condannare le discriminazioni che ancora in moltissimi sono costretti a subire sulla base del proprio orientamento sessuale, cerchiamo di comprendere meglio il fenomeno del transessualismo: uno dei più dibattuti e tormentati in tema di identità personale.

 

Le aperture registrate negli ultimi anni verso questo fenomeno traggono origine non soltanto dal mutamento dei costumi sociali, e quindi dal cambiamento della percezione dell’opinione pubblica, ma anche dall’evoluzione della scienza medico-psichiatrica, che ha “depatologizzato” il disturbo dell’identità di genere.

Nel 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità ha trasferito la disforia di genere – ovvero il malessere percepito da una persona che non si riconosce nel sesso assegnato alla nascita – dall’elenco delle malattie mentali a quello dei disturbi della salute sessuale.

 

Il fenomeno del transessualismo – che nell’antichità veniva considerato un prodigio che attribuiva ai soggetti coinvolti poteri sovrannaturali, e poteva indurre a ritenere necessaria, per motivi religiosi e giuridici, la soppressione di creature non propriamente umane oppure al contrario ad attribuire loro poteri sovrannaturali – interessa le persone che, pur appartenendo a un sesso biologico predefinito, vogliano iniziare o abbiano già iniziato un percorso di adeguamento fisico al genere opposto a quello cui dovrebbero appartenere.

Più specificamente, alcune di queste persone sentono di appartenere al genere opposto e desiderano addivenire a un cambiamento fisico che faccia corrispondere il loro sesso biologico con quello psichico; altre, invece, sentono di appartenere a entrambi i generi, ovvero, di non appartenere né all’uno né all’altro genere.

Le persone transessuali sono quelle che, appartenenti alla prima categoria, abbiano iniziato un percorso di “transizione” verso il sesso connesso al genere cui sentono di appartenere, al fine di diventare, esteticamente, quello che davvero sono.

Le altre, invece, si pongono a cavallo tra i due generi e sono definite, a seconda del caso, persone bi-gender o two spirits (laddove sentano di appartenere a entrambi i generi), gender question (laddove si interroghino sul genere di appartenenza) o gender variant (anche detti gender queer, laddove sfidino le norme collegate al genere).

 

In Italia, fino al 1982, gli interventi chirurgici volti al mutamento di sesso erano illegali e, laddove, effettuati all’estero non consentivano al transessuale di vedere riconosciuta in Italia la nuova identità di genere.

Solo con la legge 14 aprile 1982, n. 164, il legislatore ha introdotto la possibilità di rettificazione anagrafica che si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali” e che prevede previa autorizzazione del tribunale “quando risulta necessario, un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico”.

La Corte di Cassazione – che ora anche in molti altri settori afferenti alla sfera personale si è fatta interprete di nuove esigenze avvertite dal sentire sociale aprendosi alla tutela di questi fenomeni -inizialmente aveva assunto una posizione di grande rigidità.

 

Basti pensare che negli anni ’70 aveva negato l’esistenza di un diritto all’identità sessuale, precludendo alle persone transessuali ogni possibilità di rettificazione anagrafica, sostenendo che consentire ciò avrebbe leso la chiarezza delle relazioni interpersonali e quindi giuridiche, soprattutto in ambiti, come quello matrimoniale, ove la conoscenza del sesso del coniuge è un requisito indispensabile.

Ciò si scontrava, tuttavia, con i problemi etici e giuridici, di quei soggetti che non si identificavano nella identità sessuale loro riconosciuta dalla nascita e che peraltro, collocati in una sorta di zona d’ombra, erano oggetto di discriminazioni.

Il problema da affrontare era proprio quello dei transessuali, ossia di color che, attraverso un intervento medico-chirurgico, erano giunti alla modifica dei loro caratteri genitali esterni, ottenendo una certa identificazione con le donne, individui che cioè erano percepiti come caratterizzati dalla volontà di trasformare il proprio corpo, per acquisire l’anatomia del genere sentito interiormente.

 

Nel 2015 la Corte di Cassazione ha compiuto un primo passo nei loro confronti non ritenendo necessario l’intervento chirurgico ai fini della rettificazione del sesso.

Nella stessa direzione si è mossa anche la Corte Costituzionale che, sempre nel 2015, ha affermato che la legge lascia «al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare (…) il proprio percorso di transizione» e che dunque tale norma garantisce il «diritto all’identità di genere, come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU)». E dunque «l’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che, in coerenza con i supremi valori costituzionali, rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere».

 

Anche a seguito dell’evoluzione registratasi nell’orientamento delle corti nazionali e sovranazionali rimangono aperte però alcune questioni derivanti, in particolare, dalla difficoltà di assicurare tutela a situazioni non contemplate dal diritto e che invece hanno una sicura rilevanza sociale.

Resta irrisolto, infatti, il problema delle persone che, pur restando a cavallo tra il maschile e il femminile, non sentano e quindi non vogliono appartenere ad alcun genere.

Il riconoscimento giuridico viene concesso, nel nostro ordinamento, soltanto a coloro che portano a termine il percorso di transizione, non ai trans gender, individui che per scelta decidono di rimanere in una sorta di terzo genere non definito.

Anche considerando gli spunti che provengono dal panorama sovranazionale e straniero, si auspica un avvicinamento alla medicina ed alle scienze sociali da parte del legislatore che riconosca l’esistenza di una normalità diversa dalla tradizione e sappia positivizzarla, in nome della tutela dell’individuo, superando il binarismo sessuale con il riconoscimento di un “terzo sesso” (per un approfondimento si veda Rassegna della giurisprudenza di legittimità – Massimario civile 2020 – Approfondimenti tematici a cura di Marina Cirese).

Giovanna Spirito

Giovanna Spirito

Avvocato, autrice di libri e articoli nel settore giuridico.

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