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Home Esteri

Mediterraneo, scenari ‘foschi’ sul nostro mare: guerre, immigrazione, traffici e rischio terrorismo

La conferenza sulla geopolitica araba della NATO Defense College Foundation

Gaetano Massara by Gaetano Massara
22 Ottobre 2021
in Esteri
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Mediterraneo, scenari ‘foschi’ sul nostro mare: guerre, immigrazione, traffici e rischio terrorismo
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Le rotte verso l'Italia raccontate dai migranti - Internazionale

Non è rassicurante il quadro descritto oggi alla conferenza “Geopolitica araba 2021” organizzata a Roma dalla NATO Defense College Foundation. Specialmente per noi italiani, visto che le sponde Sud ed Est del Mediterraneo sono parte integrante del nostro “estero vicino”, ed ogni cenno di instabilità politica, economica e sociale si ripercuote inevitabilmente sul nostro Paese. In particolare sotto forma di taglio delle forniture di energia e conseguente rincaro delle bollette, di immigrazione di massa, di traffico di droga e di terrorismo internazionale.

I Paese arabi del Medio-oriente e del Nord Africa stentano ad uscire dalla crisi economica generata dalla pandemia, anche per colpa delle scarse forniture di vaccini. Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, nel 2021 il PIL pro-capite crescerà in media di un misero 0,6%. Il 40% della popolazione in Iran, Sahel o Siria vive al di sotto della “soglia di povertà” di 1,90 dollari al giorno.

Libia, Iraq, Siria e Yemen sono sconvolti da guerre civili. 15 milioni di rifugiati hanno generato la più grave crisi migratoria dai tempi della Seconda guerra mondiale e hanno trovato provvisoriamente riparo nei Paesi confinanti come Giordania, Tunisia o Gibuti, anch’essi in condizioni economico-sociali disastrose. La Siria, per esempio, su una popolazione totale di 21,5 milioni di abitanti ha visto circa 5,6 milioni di persone abbandonare il Paese; di queste, circa un milione si sono rifugiate in Libano, altro Paese virtualmente in bancarotta e con una popolazione di soli 6,5 milioni di abitanti. Tutti questi rifugiati difficilmente rientreranno nelle loro case. Più probabilmente cercheranno di emigrare in Europa o Nord America.

Gli introiti dei Paesi esportatori di idrocarburi si sono ridotti del 38% nel 2020 a causa del crollo della domanda di petrolio e gas indotto dalla pandemia. La ripartenza della manifattura mondiale e la recente risalita delle quotazioni del greggio stanno riportando un po’ di sollievo alle disastrate finanze dei Paesi OPEC, il cui debito pubblico è pericolosamente aumentato. Ma il contributo delle esportazioni di idrocarburi è destinato a ridursi drasticamente con il propagarsi dell’utilizzo sempre più diffuso delle energie rinnovabili da parte dei Paesi industrializzati, i quali mirano a raggiungere la “neutralità carbonica” e a spegnere le centrali a combustibili fossili entro il 2050. Inoltre, la produzione di energia rinnovabile non sarà in grado di rimpiazzare tutti i posti di lavoro che andranno distrutti nell’industria dell’oil & gas. In altre parole, la transizione energetica rischia di porre più rischi che opportunità per le economie petrolifere del Medio-oriente.

Le Primavere arabe si sono rivelate un fallimento. Aggiungiamo: purtroppo, visto che l’aspirazione ad una società giusta guidata da un governo trasparente è un sogno che deve essere incoraggiato. Ma la Fratellanza musulmana e la jihad che ne sono seguite hanno portato caos interno, intolleranza religiosa, violenza e disordine internazionale. I relatori concordano sul fatto che i Paesi della regione sembrano pragmaticamente preferire la stabilità, anche se al prezzo di corruzione e inefficienza. Occorre prendere atto che l’esportazione della democrazia, dei diritti umani e le condizionalità poste dall’Occidente per fornire aiuti devono essere riposte nel cassetto. Almeno per il prossimo futuro.

La cooperazione regionale è problematica. Nel breve termine gli ostacoli verso una pacificazione sincera e duratura sembrano insormontabili. Anche per l’interferenza di soggetti esterni e regionali che si fanno la guerra per procura. La ripresa del dialogo tra la monarchia sunnita di Arabia Saudita e la repubblica sciita di Iran è comunque un buon segnale.

La Comunità internazionale sta lentamente prendendo atto della realtà di una Siria di nuovo governata da Assad. Così come ha fatto con il regime dei Talebani in Afganistan. C’è perfino chi si spinge ad affermare che perseguire nella politica delle sanzioni contro la Siria avrebbe solo l’effetto di colpire la popolazione civile. Anche perché il regime di Damasco può contare sul sostegno della Russia.

Si può concordare con chi afferma che un accordo tra israeliani e palestinesi diffonderebbe una ventata di speranza in tutta la regione. Ma per il momento è irrealistico. Specialmente la soluzione basata su due Stati, la quale non tiene conto del fatto che in realtà gli Stati palestinesi sono due: quello di Gaza, governato da Hamas e quello della Cisgiordania, governato da Al Fatah.

Nel frattempo, sembra più efficace una cooperazione regionale su questioni pratiche. Per esempio utilizzare l’enorme potenziale di energie rinnovabili di Egitto, Giordania e Siria per alimentare gli energivori impianti israeliani di desalazione dell’acqua; migliorare le connessioni transfrontaliere delle linee elettriche; lo sfruttamento e commercializzazione congiunta dei giacimenti di gas; realizzare il gasdotto tra Egitto, Giordania, Siria e Libano; la conservazione ambientale; il turismo.

L’accordo sul nucleare iraniano è un’altra questione irrisolta. Biden finora non ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale di riattivare l’accordo con Teheran. Ma ora è l’Iran a condizionare la ripresa dei negoziati alla concessione di finanziamenti per 10 miliardi di dollari da parte di Washington. La repubblica degli ayatollah non è infatti all’angolo, potendo commerciare con Russia e Cina.

Il Sahel è una ferita aperta. Undici Paesi afflitti da siccità, carestie, guerre, terrorismo internazionale, flussi migratori, traffico di droga. Nel corso degli anni, 19 differenti strategie sono state sviluppate per la regione ma tutte sono state concepite fuori dalla regione senza il coinvolgimento dei Paesi interessati. E’ tempo di una visione di sviluppo condivisa con le comunità e le leadership locali, senza far mancare il sostegno occidentale.

Durante il vertice NATO dello scorso giugno, i leader dell’Alleanza atlantica hanno per la prima volta affermato ufficialmente che la situazione nel Sahel rappresenta una minaccia per la sicurezza collettiva della NATO. Il partenariato con la Mauritania e con gli altri 4 Stati del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali e Burkina Faso) è stato confermato.

Ma la NATO è assente dal teatro che a noi interessa di più, la Libia, dopo che ha precipitato il Paese in 10 anni di guerra civile. In generale, gli USA si stanno disimpegnando dalla regione mediterranea per concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico. Mentre i Paesi europei faticano a trovare una linea di azione comune, attori esterni si affrettano a riempire i vuoti: Russia, Turchia, Cina. Ma la questione cruciale per noi rimane irrisolta: quando l’Italia prenderà consapevolezza di non poter continuare a fare affidamento sugli altri per la difesa della propria sicurezza?

Gaetano Massara

Tags: #alleanzaatlantica#NATO#natodefensecollegefoundation
Gaetano Massara

Gaetano Massara

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