Le repliche dello spettacolo teatrale “Cuore di Tenebra” – adattamento e regia di Virginia Acqua e interpretazione di Valerio Di Benedetto – al Teatro Studio Uno, si sono concluse domenica scorsa, con la pomeridiana delle 18.00. Tanti gli spunti di riflessione lasciate dal racconto novecentesco di Joseph Conrad – per molti versi simbolico, metaforico e allucinato – nell’attuale monologo di Valerio Di Benedetto, interprete di un esaltato Marlow, alle prese con un originale e azzardato tête-à-tête con il pubblico, seguendo le indicazioni di regia. Nessun stravolgimento alla trama del libro: sarebbe stato deleterio in quanto“pochi libri cambiano una vita. Quando la cambiano è per sempre, si aprono porte che non si immaginavano, si entra e non si torna più indietro.”(cit. poeta e scrittore francese Christian Bobin). Tanti gli spettatori presenti, nonostante la calda giornata festiva. Un’opera non semplice da portare in scena ma profonda e contemporanea che da subito permette l’adattamento alla partecipazione, alla condivisione del messaggio allegorico che si snoda nelle parole di Marlow con gli astanti. A garanzia di questo risultato un abile adattamento della scenografia – scelta minimale che utilizza la caratteristica sala del teatro stesso, quasi un antro cavernoso buio e rischiarato da flebile luce dai caldi toni arancio e rosso e raramente da fari pieni, con delle panche di legno, sistemate a semicerchio, fin sotto gli occhi dell’attore. Naturalmente predomina il silenzio, non manca la nebbia e la bellissima canzone dei Doors “The End”, né il caldo né Kurtz né l’avorio. Non esiste un limite netto tra spazio della realtà – quello della platea – e spazio della finzione – quello della rappresentazione teatrale. Ognuno dei presenti può essere consapevolmente protagonista del viaggio e far suo il desiderio della ricerca di se stesso nell’oscurità della giungla in cui conduce Marlow, che è poi quella strada che conduce verso la verità nel cuore di ogni uomo. Del resto siamo tutti “uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia” riportando le parole di una frase nelle prime pagine del testo di Conrad. Per un minuto, nella penombra, si alzano nebbia come foschia e note dei Doors “This is the end, beautiful friend This is the end, my only friend, the end It hurts to set you free…”(“Questa è la fine, una bella amica. Questa è la fine, la mia unica amica, la fine, Mi fa male lasciarti libera…”). E’ il segnale che da il via allo spettacolo. Poi si accende, ma per poco, la luce per l’ingresso dell’entusiasta Marlow, alto e scompigliato nei colori coloniali degli abiti di scena rotti da quell’azzurro tenue di foulard e camicia.
“Quando ero piccolo avevo una passione per le carte geografiche. Trascorrevo ore e ore a guardare l’America del Sud, l’Africa o l’Australia facendo sogni di avventura…erano presenti tante zone bianche”.
L’esordio concitato accartoccia gli animi ma li distende all’attenzione: un mondo immaginoso postcoloniale si schiude davanti all’uditorio calato nella meditazione totale. E’ semplice fare un parallelo con i fatti quotidiani che si stanno svolgendo nel mondo. Corsi e ricorsi storici. L’umanità che non impara dagli errori e che si ripete nei fatti tragici e crudeli in atto: infiltrazioni di potere e interessi economici a discapito di vite umane.
Ancora il sound dei Doors in sottofondo.
Marlow, soppesa con lo sguardo i presenti e racconta che la figura di Kurtz viene fuori per la prima volta dalle parole del contabile della Compagnia per il traffico di avorio per cui lavora, il quale gli confida che“Kurtz è una persona davvero notevole!…Arriva più avorio da li che da tutti gli altri posti messi insieme!”. (Ma chi è Kurtz? Questa è una delle cose che Marlow ci svelerà solo nel finale – e aspetteremo a scoprirlo anche se si conosce bene il racconto!)
Ma qual è la posta in gioco sul palco (e spesso nella vita)? Quale il prodotto dell’analisi che viene fuori da questa vicenda? Una sola è la risposta per un intreccio di vari rapporti e condizioni. La natura umana e l’intrinseco male: il pensare, il sentirsi nel profondo dell’animo un dio. Realtà solenne e pesante, dura da mandar giù per chiunque. Questo desiderio di onnipotenza, questa rivelazione ingombrante – e non il considerare il proprio dio, qualunque esso sia, migliore degli altri – è il focus principale su cui puntare il dito e che caratterizzerà tutto il XX secolo. “L’anima dell’uomo e’ capace di tutto, in quanto contiene tutto, tutto il passato e tutto il futuro“. Il tema del colonialismo, il progresso, la civilizzazione e tutto il resto sono solo aspetti marginali della storia.
Bravo lo schietto Marlow (l’attore, con la sua performance, è disposto a mettersi in gioco fino in fondo) a provare a trasportare con l’onda d’urto di voce e vocaboli verso l’anelata verità fra silenzio, “erba alta, erba bruciata”, fitta vegetazione, caldo, cannibali, stazioni della Compagnia, attacchi indigeni, rullio di tamburi e avorio lasciandosi andare alla corrente del fiume, nella tenebra, fino al centro della giungla, dritto al cuore.
Per fortuna (o purtroppo?) non si assiste a nessuna valutazione in corso, non ci sarà nessun giudizio finale. Il male non è sconfitto (“…salvami, salva l’avorio, capisci…”): Marlow (l’Io diurno) quando vede Kurtz (l’Io notturno), si rende conto che il vero male è lui stesso e la sua società, quella società che comunque tutelerà raccontando il falso. E’ Marlow che nasconde le parole “uccidere tutti i nativi” presenti nel libro di Kurtz. E’ sempre Marlow che omette il grido “Che orrore! Che orrore!” esalato da Kurtz – mentre gli consegna delle lettere e una foto di donna – prima di morire, per tramutarlo nel nome dell’amata quando questa gli è davanti e gli chiede di dirgli quali sono state le ultime parole dette dal suo uomo:“L’ultima parola, per aiutarmi a vivere.”
Al contrario, eccola la verità in sospensione: la realtà interiore di ogni singolo essere umano è più complessa, ed è forse proprio qui che alberga l’orrore. Anche se si vive normalmente la propria vita, tale normalità magari è solo apparenza, perché quell’orrore che racconta Conrad, ce l’abbiamo dentro. L’attore lo fa percepire; gli spettatori lo avvertono.
Il pubblico tutto è in silenzio. Quel silenzio proprio che nasce nel momento dell’attesa, quasi ad aspettare il verificarsi di un probabile evento, di sperare in un annuncio che cambi il finale. Invece non succede nulla. La supremazia del silenzio, irriso di inquietudine, raccoglimento e meditazione, scorre verso la fine e si disperde questa volta con la colonna sonora dei Doors e la musica forte degli applausi. Il viaggio di Marlow è finito, il viaggio di ognuno dei presenti forse è in procinto di incominciare.
Maria Anna Chimenti