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Signora libertà, signorina fantasia: Capozzoli racconta il carcere

Un libro che si anima nell’esigenza di raccontare come un reportage fotografico, ma non solo, la forza di voler trascendere oltre le barriere morali

Cristiana Enrica Ranieri by Cristiana Enrica Ranieri
11 Marzo 2018
in Attualità, Eventi
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Giancarlo Capozzoli creatore di un libro che si anima nell’esigenza di raccontare come un reportage fotografico, ma non solo, la forza di voler trascendere oltre le barriere morali che si sono edificate nelle carceri italiane. Portando una libertà culturale più tangibile di una finta speranza di recupero sociale.
Questo ci racconta…
“Il lavoro svolto nell’ultimo anno all’interno degli istituti di Rebibbia, Casa Circondadiale Nuovo Complesso, e Terza Casa, a Roma. Lavoro svolto da me in collaborazione con un collettivo di persone, amici innanzitutto, professionisti che con estrema serietà, dedizione e impegno hanno dedicato il loro tempo la loro opera la loro arte il loro sapere alla realizzazione di questo impegno preso con noi stessi innanzitutto: riuscire a portare l’arte, la cultura il sapere all’ interno del carcere, all’ interno di un luogo dove manca tutto, davvero tutto, figurarsi la Cultura.
Questo libro nasce dalla esigenza di testimoniare questa esperienza. Racconta del teatro innanzitutto del teatro portato in scena con i detenuti attori di Rebibbia. Sono alcuni degli scatti di scena che il fotoreporter francese Gerald Bruneau ha realizzato nel Luglio del 2016, durante le prove per la messa in scena de “Othello o della verità”, riadattamento da me curato da Shakespeare per e con un gruppo di persone private della libertà personale presso il reparto G9, di Rebibbia, appunto.
Sono foto di scena semplicemente.
Eppure in questi scatti è riproposta, è rappresentata, emerge con forza e decisione e bellezza tutta la libertà e tutta la fantasia evocata dal teatro.
Sono foto di scena, ad un gruppo di attori.
Sono foto di scena ad un gruppo di attori detenuti.
Sono foto di scena ad un gruppo di detenuti che per un’ ora e mezza della loro reclusione ha dimenticato questo loro essere reclusi, e sono diventati attori, davvero. Lo sono stati davvero.
Se si perde di vista l’importanza di questo passaggio è inutile andare avanti.
Meglio chiudere il libro e passare ad altro.
Loro hanno indossato costumi, hanno imparato battute, il copione, le azioni, i movimenti. Hanno imparato ad interagire tra di loro, e poi davanti ad un pubblico vero. Si sono emozionati, ed hanno suscitato emozioni. Hanno inscenato le loro emozioni e quelle dei personaggi da loro interpretati.
Questi semplici scatti testimoniano dell’importanza di questi progetti realmente culturali all’interno delle galere. Senza finzioni. C’è la Costituzione Italiana a sancire con l’art. 27 che la reclusione deve tendere alla
rieducazione del condannato. E dunque questa attività, nella sua complessità, e queste professionalità che collettivamente hanno reso possibile la realizzazione, sono realmente uno stimolo fondamentale (nel senso del Grund filosofico tedesco), in vista di un sostanziale ripensamento, del sé e delle proprie categorie di valori, che l’ arte, la cultura, il pensiero, la filosofia favoriscono.
Queste foto di Gerald Bruneau raccontano di luci e di ombre di volti e disegni sulla pelle e sorrisi abbozzati e occhi e sguardi tristi o forzatamente allegri. Raccontano di giochi e di questo tempo sospeso, impiegato non più su una branda a contare minuti, giorni, settimane, lasciate trascorrere senza che (il) nulla accada, davvero. Raccontano di un altro tempo, impiegato a conoscere e a conoscersi, a riconoscersi, raccontano del mettersi in discussione e a trovare il proprio tempo.
Questo reportage, questo racconto di parole e fotografie è il racconto di chi ha impiegato le proprie giornate vuote per imparare le battute di Othello, e a tradurle nel proprio dialetto o nella propria lingua, a trovare il proprio modo espressivo per farlo sembrare e agire autenticamente, almeno per qualche ora, sulle tavole impolverate del teatro interno del carcere, della galera.
Sono scatti di chi ha tentato di ripensare a sé, tramite il personaggio e la cattiveria e l’infamità di Jago. Sono gli scatti di chi ha assistito alla messa in opera di Desdemona, interpretata da una studentessa di Tor Vergata, e al suo omicidio/femminicidio…
Sono gli scatti di chi ha condiviso tempo e sorrisi e opinioni con gli studenti universitari.
Questo reportage è la testimonianza di questo incontro anche, Università e Carcere.
Il sapere e la bellezza del giovane e inesperto sapere degli studenti e delle studentesse della facoltà di lettere e filosofia di Tor vergata messi a disposizione assieme al loro tempo con “loro” e per “loro”.
Maria Ludovica Ventura, Francesco Tibaldi, Veronica Budini, Mary De Cubellis, Flavia Vitti, Roberta Ciannella e Marco Di Bartolomeo hanno partecipato con entusiasmo a questo progetto. Il loro tempo e il loro essere presenti ha reso tutto questo possibile, rendendolo ancora più prezioso.
Questo libro è la testimonianza della bellezza del sapere e della cultura, sono gli scatti che mettono in evidenza il mettere in questione tramite il teatro, se stessi, attraverso domande mai altrimenti poste.
Sono la testimonianza che si può e si deve portare cultura lì dove non si dà.
Dico portare cultura e arte perché credo fermamente e fondamentalmente nel teatro nella cultura e nell’arte. Se sono vera arte vero sapere servono a porre domande.
Siamo partiti da una messa in scena, semplicemente.
Di semplice c’è ben poco come si vede.
Questo libro è un racconto di parole e d’immagini di un accadimento di un progetto realizzato in carcere, durante una messa in scena.
Con un gruppo di detenuti e di studenti universitari.
Un gruppo di persone private della libertà personale che gioca a fare gli attori, anche se solo per un’ora.
O per un anno intero, durante la durata del laboratorio.
C’è tanto carcere dunque.
C’è del carcere innanzitutto e perloppiù.
C’è il carcere in questi scatti, e la sua bruttura.
Che io privilegiato (alla fine del mio lavoro, io esco) ho sperimentato sulla mia pelle.
In questi anni di teatro e scrittura ho visto su me stesso il cambiamento che entrare in un carcere mi ha provocato. Il cambiamento di prospettiva innanzitutto sulle persone che lo abitano e che lo subiscono.
La sospensione del giudizio, da parte mia.
E poi i rumori, i cancelli che si chiudono dietro. I controlli serrati. La diffidenza da abbattere come un muro. L’assenza di tutto. Il tempo immobile, che non passa, che sembra non passare mai. Il senso di soffocamento. La mancanza di affettività. L’assenza di sessualità. I muri sporchi. La puzza di merda. Le chiavi spesse. Gli assistenti. La burocrazia. La lentezza. Le domandine. Il vitto. Il portavitto. La puzza del cibo d’ordinanza. I topi. I lamenti. I tagli sul corpo, Le cicatrici. La droga. Le ferite che si vedono. E quelle che non si vedono. Le liti. La rabbia repressa. L’ ignoranza. La volgarità. Una certa eleganza innata. Il degrado. I volontari. La dipendenza. La familiarità. L’ ironia che ti serve per andare avanti. La disperazione, quella vera.
Gli sguardi che ti scrutano. E occhi fieri e altri umiliati. I muri spessi. Le guardie, anzi no gli assistenti. La voglia di ricominciare. La Violenza. La Violenza. La Violenza. Le promesse. Il quadrato di cielo che non è cielo. I panni stesi alle grate. I lunghi corridoi. I libri. I silenzi. I diritti negati. I dovevi. L’ irresponsabilità.
L’infantilizzazione. Il sesso represso. I sensi repressi. Il non-senso di questo luogo. I colloqui. I familiari. I pacchi. I regali. Le attese. I bambini… In questi anni ognuna di queste parole declina dentro di me un racconto una storia un ricordo.
E per tanto vissuto che ho cominciato anche a interessarmi dei diritti e del diritto dei detenuti, che sono una parte importante di questo racconto, di questa narrazione. C’è in questo interesse la messa in questione dell’uomo e dell’ uomo privato della propria libertà e dignità, che lasciano porre questioni filosofiche. L’uomo privato della propria libertà, l’uomo senza un progetto, l’uomo come essere-senza-tempo, senza-un-tempo-in-avanti, senza affettività è un uomo?
E la sua dignità?
Questo libro racconta tutto questo, dunque.
Questo libro parte dal teatro, naturalmente.
Da un lato l’aspetto apollineo del teatro e le domande che lascia porre. I testi teatrali intesi come opere d’arte servono a questo. Il testo in questione, Othello, mette in evidenza diverse questioni sostanziali. L’amore ingenuo del moro. La messa-in-scena tramata da Jago. La sua infamità. La bellezza e la dolcezza di Desdemona. Il suo amore per il moro, e per il suo valore. La paura dell’ eroe, e la sua rabbia, e la volgarità di Jago e del suo tramare. E il femminicidio, mai così tristemente attuale. E il suicidio del moro e il suo amore folle.
Il teatro è però anche gioco, spielen. Play.
Il teatro nella sua essenza è il dionisiaco che lascia scoprire e riscoprire le innumerevoli possibilità espressive di sé, in relazione agli altri, e in relazione con se stessi. Seppure in una finzione scenica.
È il corpo che reclama se stesso in un luogo dove, il carcere, se lo spirito può non essere recluso, il corpo lo è inevitabilmente. E allora questo teatro con i detenuti assume una valenza maggiorata. Il tempo è un tempo investito in questo gioco/non gioco con gli altri e con il femminino anche. È il corpo desensibilizzato, pauperizzato che riscopre i sensi. Letteralmente.
Questo libro è la testimonianza di questa riscoperta anche.
Si assume un’altra vista, un altro sguardo. Metaforicamente e non. Sia da parte degli spettatori che si aprono a un mondo altrimenti chiuso e dimenticato. Sia rispetto ai detenuti che si “vedono” in altro modo. Acquistano un altro punto di vista. Su se stessi, sugli altri, sul mondo. Si impara inoltre ad essere visti: ci si prepara ad essere visti e a non-lasciarsi andare, che è il rischio più drammatico. Ci si prepara in attesa dell’incontro con lo sguardo dell’altro/a. E si impara a guardare di nuovo. Si impara a relazionarsi anche con il femminile in modo diverso, con più rispetto, con più decenza, con professionalità.
Questo libro testimonia anche dell’odore delle tavole di legno impolverate del teatro e del suo profumo, di altri profumi, e del profumo della libertà. Queste foto raccontano di altri tatti, di mani che si stringono, di persone che si abbracciano, di altro, rispetto ai soliti muri e alle solite pareti…
L’aspetto musicale dell’udito, è stato lasciato per ultimo, non a caso. Nelle foto non si sente evidentemente. Si vedono i sorrisi e tutto il resto. Il suono no. Le parole neanche. Si vedono persone che parlano. Io che urlo. Eppure ascoltare le musiche suonate dal vivo, dal maestro Erik Bertsch è testimoniato dalla perfetta riuscita di questa opera che lui e la sua musica hanno contribuito a rendere unica. E irripetibile.

Tags: Italia
Cristiana Enrica Ranieri

Cristiana Enrica Ranieri

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