Un veto israeliano ha spezzato nel cielo di Ramallah l’ultimo volo della speranza diplomatica di Mahmoud Abbas, impedendo ai suoi elicotteri giordani l’atterraggio sul suolo palestinese e bloccando di fatto la partenza di Abu Mazen verso Damasco, dove avrebbe dovuto incontrare il neo-presidente siriano Ahmed Al Sharaa, in carica dallo scorso gennaio. È la prima volta che Israele nega a un capo dell’Autorità Palestinese la possibilità di recarsi all’estero: un gesto che – secondo fonti palestinesi – non è solo un veto logistico, ma un atto calcolato per indebolire l’istituzione moderata che rappresenta e, di riflesso, rafforzare la presa di Hamas in Cisgiordania. In un territorio dove il confine tra burocrazia e occupazione diventa ogni giorno più sottile, il volo negato di Abbas rievoca la tragica normalità della vita palestinese sotto restrizioni: una routine in cui i bambini imparano presto a misurare la libertà in permessi e passaporti, piangendo i compagni caduti sotto i colpi di cecchini o travolti dalle esplosioni al confine.
Quelle piccole vittime, i volti dei bambini che non torneranno a casa, sono le icone innocenti di un conflitto che non risparmia né età né implorazioni di pace. Ogni lacrima che scende sul viso di una madre palestinese è l’eco dei missili che squarciano il silenzio del calar del sole. E in queste lacrime, a volte, si insinua anche un pregiudizio più profondo: l’equazione ossessiva che confonde l’intera fede islamica con il braccio armato di un movimento politico. Ma l’Islam non è Hamas, e l’Islam non è terrorismo. Con i suoi 1,8 miliardi di fedeli sparsi fra cinque continenti, l’Islam insegna la pietà, la giustizia e la compassione verso il prossimo, valori in totale antitesi con le strategie violente di chi sceglie la guerra come unico linguaggio.
Il rifiuto israeliano di autorizzare l’atterraggio degli elicotteri giordani non ha cancellato solo un viaggio, ma ha negato una possibile alleanza che avrebbe potuto aprire corridoi di dialogo in un’area affamata di mediazioni. Per i palestinesi si tratta di una prova in pi
ù: «La sopravvivenza del governo Netanyahu è legata a quella di Hamas e viceversa», affermano dirigenti dell’Autorità, convinti che l’aumento delle tensioni serva a erodere la legittimità dei moderati. E mentre i droni sorvolano i cieli tinti di rosso al tramonto, gli adulti discutono di strategie geopolitiche e contano pollici sottratti alle loro agende, i bambini continuano a contare i giorni senza scuola, senza parco, senza futuro.
Di fronte a questo scenario, è urgente che la comunità internazionale riconosca il dramma dell’infanzia palestinese come una priorità umanitaria e politica. Non basta auspicare il rispetto dei “diritti umani” se poi si impedisce al loro interlocutore ufficiale di sedersi al tavolo delle trattative. Non basta condannare il terrorismo ignorando che la gran parte dei musulmani, in Medio Oriente come in Occidente, vive e spera in pace. Per restituire a quelle piccole mani intrise di polvere il profumo dei giochi e dei libri, occorre rimuovere quei divieti assurdi che impediscono anche al simbolo della mediazione – Abu Mazen – di spiccare il volo verso un dialogo necessario. Solo così si potrà restituire un sorriso a chi crede che l’umanità non si misuri in voli cancellati, ma in vite salvate.