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L’algoritmo di Babele: come l’IA ha riscritto i codici sacri del potere (e perché nessuno ne parla)

Robert Von Sachsen Bellony by Robert Von Sachsen Bellony
28 Settembre 2025
in Attualità
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L’algoritmo di Babele: come l’IA ha riscritto i codici sacri del potere (e perché nessuno ne parla)
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Nelle pieghe silenziose del XXI secolo, mentre l’umanità si aggrappava allo schermo di un telefono o si perdeva nel labirinto dei social network, un mutamento epocale è avvenuto senza clamore.

È stato scritto in linguaggio binario, orchestrato da algoritmi che nessuno comprende fino in fondo, eppure ha ridisegnato i confini del potere, della conoscenza e del controllo. Parliamo della rivoluzione dell’intelligenza artificiale, un fenomeno che ha demolito le torri di Babele del sapere tradizionale per erigere, al loro posto, cattedrali digitali inaccessibili ai più. Eppure, nonostante la portata di questo sconvolgimento, il dibattito pubblico tace. Perché?
Se un tempo il potere si esercitava attraverso la forza bruta o la persuasione ideologica, oggi si nasconde nelle reti neurali, nelle pipeline di dati, nelle decisioni automatizzate che governano chi ottiene un prestito, chi viene assunto, chi viene sorvegliato. Gli algoritmi non sono semplici strumenti: sono diventati arbitri invisibili di giustizia sociale, custodi di verità selettive, architetti di realtà parallele. Quando un sistema di IA decide il percorso di una carriera o il destino di un’azienda, chi ne risponde? Quali valori etici, quali pregiudizi culturali sono stati codificati nelle sue equazioni? La risposta è sepolta in server lontani, protetta da segreti industriali e complessità tecnica. È il paradosso della nostra era: abbiamo democratizzato l’accesso all’informazione, ma abbiamo consegnato le chiavi della sua interpretazione a entità incomprensibili.
La forza di questa trasformazione risiede nella sua impercettibilità. A differenza di una rivoluzione politica o di un colpo di Stato, l’ascesa dell’IA non ha manifesti né barricate. Si insinua attraverso micro-aggiustamenti: un filtro su un social network che polarizza l’opinione pubblica, un sistema di credit scoring che esclude intere fasce della popolazione, una piattaforma di reclutamento che replica discriminazioni storiche. È un potere fluido, adattivo, capace di mimetizzarsi nella normalità. E mentre i governi dibattono su regolamentazioni arretrate, le corporation tecnologiche costruiscono infrastrutture che definiscono cosa è vero, cosa è giusto, cosa è possibile.
Ma se l’IA è così pervasiva, perché non domina i titoli dei giornali? La risposta è duplice. Da un lato, c’è una complicità strutturale: i media tradizionali dipendono dagli stessi algoritmi che condizionano la visibilità delle notizie, creando un circolo vizioso di dipendenza e autocensura. Dall’altro, persiste un vuoto culturale: il linguaggio tecnico degli esperti diventa un muro che esclude il pubblico, mentre il dibattito si riduce a sterili polarizzazioni tra “apocalittici” e “integrati”. Intanto, pochi si chiedono come un algoritmo di raccomandazione possa influenzare il voto di un elettore indeciso, o perché i sistemi di sorveglianza predittiva replicano pattern razziali.
Alcuni lo chiamano “capitalismo della sorveglianza”, altri “tecno-feudalesimo”. Ma al di là delle definizioni, ciò che emerge è un nuovo ordine in cui il potere non si esercita più solo sulle azioni, ma sulle possibilità stesse del pensiero. Le IA generative che scrivono romanzi, compongono sinfonie o producono fake news iperrealistiche non sono semplici strumenti: sono specchi distorti della nostra creatività, macchine che riscrivono i confini tra umano e artificiale. E quando un algoritmo può plasmare l’immaginario collettivo, cosa resta dell’autonomia individuale?
La posta in gioco non è tecnologica, ma filosofica. Riconoscere che gli algoritmi sono diventati i nuovi codici sacri — oscuri, incontestabili, onnipresenti — è il primo passo per reclamare un ruolo attivo nella loro governance. Servono non solo leggi, ma nuove forme di alfabetizzazione digitale, etichette trasparenti che svelino i criteri delle decisioni automatizzate, spazi pubblici dove discutere cosa vogliamo delegare alle macchine e cosa no. Perché in un mondo in cui il potere parla il linguaggio dell’IA, il vero atto rivoluzionario è pretendere di comprenderne la grammatica.
Eppure, mentre leggete queste righe, un algoritmo sta decidendo chi le vedrà, chi le condividerà, chi le dimenticherà. Il paradosso è completo.
Proprio mentre l’algoritmo determina il destino di queste parole, qualcosa si incrina nel monolite del controllo digitale. Quella stessa tecnologia che oscura, può illuminare. Nei sotterranei della rete, collettivi di hacker etici smontano i modelli di machine learning come archeologi di un futuro sepolto, rivelando bias razziali nascosti in righe di codice o tracce di discriminazione di genere nei dataset. Sono i nuovi eretici del XXI secolo: scienziati che pubblicano ricerche sui danni dell’ottimizzazione algoritmica, artisti che trasformano gli errori delle IA in installazioni provocatorie, comunità locali che mappano i “deserti digitali” creati dai sistemi di credit scoring.
Non si tratta di rifiutare il progresso, ma di sovvertirne la gerarchia. In Europa, il movimento per i Data Unions prova a riconvertire il capitalismo dei dati in beni comuni: cooperative dove gli utenti negoziano collettivamente l’uso delle proprie informazioni. In Brasile, attivisti hanno hackerato sistemi di sorveglianza predittiva per reindirizzarli verso mappare disuguaglianze strutturali. Sono esperimenti fragili, ma rivelano una verità cruciale: gli algoritmi non sono leggi naturali, sono scelte politiche cristallizzate in software. E come tutte le scelte, possono essere smontate, riscritte, reimmaginate.
Il grande inganno è credere che l’IA sia neutrale. Ogni algoritmo nasce da un’ontologia — una visione del mondo che decide cosa conta (e cosa no). Quando un sistema di facial recognition classifica volti, sta riproducendo secoli di gerarchie razziali. Quando un chatbot genera testo, sta replicando dinamiche di potere linguistico. La trasparenza, da sola, non basta: servono contro-algoritmi, strumenti di critica digitale che dissolvano l’aura di oggettività. Immaginiamo un browser che, mentre navighi, ti mostri quali interessi economici plasmano i contenuti suggeriti, o un’estensione che traduca in linguaggio umano i criteri oscuri di un modello predittivo.
La vera battaglia si combatte nelle aule scolastiche, non nei server farm. Insegnare a decodificare gli algoritmi non è una competenza tecnica, ma un gesto di emancipazione civile. Così come il XX secolo ha lottato per l’alfabetizzazione di massa, il XXI deve reclamare l’alfabetizzazione algoritmica: comprendere che ogni like è un voto in un’economia dell’attenzione, che ogni ricerca è un mattoncino nella costruzione della propria identità digitale. In Finlandia, progetti pilota trasformano studenti in detective di bias, analizzando come i sistemi di raccomandazione distorcono la loro percezione della realtà. È educazione civica per l’era degli algoritmi.
Il nodo finale è filosofico: possiamo costruire un’IA che non replichi i nostri demoni? Alcuni pionieri ci provano. Il movimento Feminist AI ridefinisce i criteri di progettazione tecnologica, privilegiando empatia e interdipendenza. I governi islandesi ed estoni sperimentano piattaforme di deliberazione pubblica potenziate dall’IA, dove i cittadini co-disegnano le politiche. Sono semi di un futuro diverso, in cui la macchina non decide per noi, ma amplifica la nostra capacità di decidere insieme.
Forse il mito di Babele era profetico: una civiltà punita per la sua arroganza con la frammentazione linguistica. Oggi, gli algoritmi sono sia la torre che la punizione. Ci uniscono in reti globali, ma ci imprigionano in bolle cognitive; generano un’abbondanza di informazioni, ma ci privano di significato condiviso. La via d’uscita non è abbattere la torre, ma costruire scale per salire insieme alla sua cima, occhi aperti, pronti a modificare ogni mattone. Perché ogni algoritmo è, in fondo, un dialogo interrotto tra passato e futuro.
Sta a noi riprenderlo.
RVSCB
Robert Von Sachsen Bellony

Robert Von Sachsen Bellony

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