Dalla constatazione fondata sull’osservazione dei fatti e delle reazioni ufficiali è prevedibile che Israele esiga la restituzione di tutti gli ostaggi, vivi o morti, prima di poter considerare conclusa la guerra. È un principio che prescinde dalle opinioni, radicato nella storia, nella cultura e nella struttura stessa dello Stato ebraico. In queste settimane, però, i notiziari e molti organi di stampa hanno iniziato a parlare di una “pace ormai consolidata”, come se il conflitto fosse alle sue ultime battute. Si diffonde un linguaggio di sollievo e di trionfo, che presenta la tregua in atto come un preludio irreversibile alla normalità. Tutto ciò sarebbe auspicabile. Eppure, al di sotto di questa superficie di speranza, resta una contraddizione sostanziale: la pace che si annuncia non è ancora pace, ma una tregua fragile, sospesa su un equilibrio che può spezzarsi in ogni momento.
C’è infatti un punto che decide il destino della guerra a Gaza, ed è la sorte degli ostaggi. Finché Israele non li riavrà tutti, vivi o morti, nessuna pace sarà possibile. L’intero processo politico e diplomatico si gioca su questa linea sottile: il ritorno dei prigionieri è il fondamento stesso della legittimità nazionale israeliana. Per Israele, gli ostaggi non sono un dettaglio né una variabile negoziabile: sono il cuore simbolico della propria unità. Nessun governo israeliano potrebbe sopravvivere all’idea di lasciare anche un solo cittadino, o un solo corpo, nelle mani del nemico.
Non si tratta di orgoglio o di vendetta, ma di un principio identitario profondo: nessun israeliano viene abbandonato. La questione, tuttavia, non è solo politica. È anche religiosa e culturale. Nella tradizione ebraica, la restituzione dei corpi è un dovere sacro, un atto di giustizia verso i vivi e verso i morti. Per questo Israele non accetterà un accordo parziale: anche le spoglie devono tornare. In caso contrario, il conflitto resterebbe sospeso in una condizione di “né pace né guerra”, una tregua apparente simile a quella che per anni ha congelato i rapporti con Hezbollah. Sul piano internazionale, gli Stati Uniti e i mediatori arabi spingono per una pacificazione graduale, ma senza la certezza sugli ostaggi Israele non potrà accettare un cessate il fuoco pieno. È probabile che si arrivi a tregue temporanee o localizzate, mantenendo però costante la pressione militare su Gaza fino a quando non sarà chiarito il destino di ogni prigioniero.
E qui nasce l’ambiguità delle vedute: da un lato, la narrativa politica e mediatica tende a celebrare un successo diplomatico che ancora non esiste; dall’altro, la realtà concreta, quella militare, culturale e psicologica, continua a segnalare un’irrisolutezza profonda. Le famiglie degli ostaggi, gli apparati di sicurezza e una parte dell’opinione pubblica israeliana non parlano di pace, ma di sospensione. La previsione di una pace ormai certa, dunque, non è attendibile: è più un riflesso del desiderio che non della realtà. Se Hamas o altre fazioni nascondessero o trattenessero prigionieri, o i loro resti, Israele considererebbe violato ogni accordo. Non potendo reagire apertamente sotto l’occhio della comunità internazionale, potrebbe ricorrere a una guerra sotterranea: intelligence, operazioni mirate, nel tentativo di ottenere con la forza ciò che la diplomazia non riesce più a garantire.
Il rischio maggiore è quello dello stallo definitivo. Se la parte palestinese non fosse più in grado di restituire tutti gli ostaggi, per morte, dispersione o trasferimento, la guerra entrerebbe in una fase senza uscita politica. Israele continuerà a chiedere “tutti, vivi o morti”, mentre Hamas negherà di sapere dove siano. E la pace rimarrà sospesa, prigioniera della sua stessa incompiutezza. In fondo, questa è la vera trappola morale e strategica di Gaza: la guerra non finirà quando si taceranno le armi, ma solo quando si saprà che fine hanno fatto tutti gli ostaggi.




















