Siamo nel frastuono digitale, ogni secondo è colonizzato da notifiche, algoritmi e un flusso ininterrotto di pensieri, ma una domanda antica torna a bussare alle porte della coscienza moderna: cos’è la mente, e qual è il suo vero rapporto con l’infinito che la trascende?
Le risposte, custodite per millenni nei testi sacri dell’Oriente, oggi risuonano con una urgenza quasi profetica. Non si tratta di teorie astratte, ma di mappe pratiche per navigare l’enigma dell’esistenza.
La mente, secondo lo Yoga Sūtra di Patañjali, non è né nemica né alleata, ma uno strumento.
Come un fiume in piena che oscura il letto roccioso sottostante, le sue fluttuazioni (*vṛtti*) — pensieri, emozioni, ricordi — velano la luce del Sé (*Ātman*).
Questo “velamento” non è un difetto, bensì una conseguenza della sua natura: proiettare, analizzare, dividere. Ma quando il flusso si placa, accade l’impensabile. La stessa mente, da velo opaco, si trasforma in specchio cristallino, riflettendo ciò che sempre è stato: la coscienza pura, il testimone immutabile che osserva senza giudicare, senza afferrare, senza diventare.
La Bhagavad Gītā, con la sua prosa adamantina, invita a un atto rivoluzionario: «Ātmanam ātmanaḥ paśya» — “Vedi il Sé attraverso il Sé”. Un paradosso solo apparente. Perché qui non si parla di sforzo, ma di resa.
Non di conquista, ma di riconoscimento. La mente che tenta di comprendere l’Assoluto è come un dito che indica la luna: se si fissa sul dito, la luna scompare.
Ma quando il dito si abbassa, la luna si rivela — non come oggetto, ma come esperienza diretta, immediata, precedente a ogni linguaggio.
Il problema, suggeriscono i saggi, non è il pensiero in sé, ma l’identificazione con esso. Come un bambino che scambia l’ombra per la sostanza, l’uomo moderno vive prigioniero di narrazioni mentali: “io sono questo corpo”, “io sono i miei successi”, “io sono i miei fallimenti”.
La meditazione, in questa prospettiva, non è una fuga dalla realtà, ma un ritorno alla sorgente. Un processo di *smontaggio* delle illusioni, strato dopo strato, fino a incontrare lo spazio vuoto che contiene ogni forma.
Eppure, il vero salto avviene quando si comprende che non esiste un “io” che medita.
La quiete interiore non si ottiene, si riconosce. È già lì, sotto il chiacchierio mentale, prima dell’alba del primo pensiero. Come l’oceano che non ha bisogno delle onde per esistere, la coscienza non necessita della mente per confermare la propria presenza. Si auto-evidenzia, semplicemente, nel silenzio che precede e segue ogni cosa.
Cosa significa, allora, vivere in uno stato di “mente-specchio”? Non è passività, ma presenza radicale. È agire nel mondo senza lasciarsi definire da esso. Amare senza pretendere. Creare senza attaccarsi al risultato. Come un musicista che improvvisa senza spartito, fidandosi dell’intuizione che sgorga dallo spazio tra le note. In questa dimensione, persino i conflitti interiori diventano porte: ogni dubbio, ogni paura, ogni domanda non risolta è un invito a scavare più a fondo, fino a raggiungere lo strato di silenzio che unifica tutti gli opposti.
I neuroscienziati moderni, curiosamente, iniziano a parlare di “default mode network” — quella rete cerebrale attiva quando la mente non è focalizzata su compiti specifici. È lo stato del “vagare mentale”, spesso associato all’infelicità. Ma forse, suggeriscono alcuni ricercatori ribelli, quel network nasconde un tesoro: la capacità di accedere a una forma di intelligenza non concettuale, un sapere organico che trascende la logica. Non è forse ciò che i mistici chiamavano “jnana” — conoscenza diretta dell’Assoluto?
Il paradosso finale è questo: più cerchiamo di controllare la mente, più essa si ribella. Più la osserviamo con distacco amoroso, più si trasforma in alleata. Come scriveva il poeta persiano Rumi: “Chiudi la lingua e apri la finestra del cuore. Da lì parlerà la luce che non mente”.
Forse il vero atto rivoluzionario è fermarsi. Non per fuggire, ma per ricordare. Non per diventare, ma per essere.
E qui, nella landa oltre le parole, lo specchio della mente riflette finalmente ciò che è sempre stato: l’eterno presente, il qui e ora che non ha bisogno di spiegazioni.
Non c’è nulla da raggiungere, solo molto da disimparare. Il velo, alla fine, era fatto della stessa sostanza dello specchio.
RVSCB
















