Fuori concorso nella sezione Freestyle, Fiorella Infascelli firma un film teso e necessario con Sergio Rubini e Massimo Popolizio: 36 giorni chiusi a decidere il destino del Maxiprocesso
C’è un tempo sospeso in cui la storia si ferma, trattiene il respiro e chiede a pochi di scegliere per tutti. È in questo varco che si colloca La camera di consiglio, il nuovo film di Fiorella Infascelli presentato fuori concorso nella sezione Freestyle alla Festa del Cinema di Roma 2025 e in uscita al cinema con Notorious Pictures. Un’opera tesa, asciutta, profondamente civile, che restituisce l’eccezionalità di un momento unico: la camera di consiglio più lunga della giustizia italiana, 36 giorni in cui 8 giurati, blindati in un appartamento-bunker dell’Ucciardone, attesero di pronunciare condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso di Palermo.
Prodotto da Armosia e Master Five Cinematografica con Rai Cinema, il film accoglie il pubblico in una stanza dove il tempo è scandito dall’ascolto, dalla memoria, dal dubbio. Al centro, due presenze magnetiche: Sergio Rubini, presidente della giuria, e Massimo Popolizio, giudice a latere. Attorno a loro un cast corale che dà corpo a una comunità sotto pressione: Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma, con Claudio Bigagli.
Il peso della scelta, la forma della verità
Infascelli costruisce un film tutto d’interni, scegliendo un’impostazione scenica quasi teatrale: pochi ambienti, luci misurate, inquadrature che si avvicinano ai volti per cercare la verità nei dettagli. In questo spazio circoscritto, la regista fa esplodere la tensione dell’isolamento e la fatica del ragionamento: non c’è spettacolo della violenza, ma l’eco di una storia che rimbomba fuori dalla porta. A cucire la dimensione privata con quella pubblica concorre l’uso accorto di materiali di repertorio, che inseriscono il dibattito dei giurati nel quadro storico e civile più ampio.
La sceneggiatura, firmata da Fiorella Infascelli e Mimmo Rafele con la collaborazione di Francesco Licata, nasce da uno sguardo documentato e partecipe. La consulenza di Pietro Grasso—che fu giudice a latere del Maxiprocesso—garantisce profondità giuridica e verità di contesto: si sente in ogni snodo, in ogni esitazione, in ogni silenzio carico di responsabilità.
Il Maxiprocesso: una soglia della Repubblica
Celebrato alla fine degli anni Ottanta, il Maxiprocesso è una pagina fondativa della storia repubblicana: per la prima volta lo Stato riconobbe Cosa Nostra come organizzazione unitaria e ne colpì l’architettura di potere con una condanna collettiva. La camera di consiglio non rievoca semplicemente un passato glorioso: ci ricorda quanto sia costata quella verità, quanto sia fragile la giustizia senza persone che se ne fanno carico, quanto sia necessario difenderla ogni volta.
Rubini e Popolizio: due bussole morali
Rubini lavora di sottrazione: il suo presidente contiene, ascolta, dosa, tiene il filo nell’andirivieni delle ragioni. Popolizio, giudice a latere, incarna il rigore del dubbio, la lucidità che non si concede scorciatoie emotive. Insieme, sono le due bussole morali del film: non eroi, ma servitori della legge, consapevoli che ogni decisione pesa su vite, famiglie, comunità.
Non (solo) un film “sulla mafia”
Infascelli firma un’opera che trascende l’etichetta: non è (solo) un film “sulla mafia”, è un film sulla legge, sulla responsabilità, sulla democrazia messa alla prova. Il verdetto è la meta, ma il percorso—quello fatto di ascolto reciproco, di frizioni, di rispetto dei ruoli—è il vero oggetto del racconto. È lì che si muove la macchina invisibile dello Stato.
Perché vederlo
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Per assistere a un cinema d’attori che restituisce densità alla parola “giustizia”.
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Per ricordare che la legalità è un processo, non un logo.
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Per comprendere che la storia del Paese passa anche attraverso stanze chiuse, notti lunghe, decisioni che non fanno rumore ma cambiano il futuro.
In un festival spesso attraversato da storie private, La camera di consiglio porta in primo piano una vicenda pubblica di cui siamo ancora, tutti, eredi. Con misura e passione civile, Fiorella Infascelli ci fa sedere—da spettatori—dove sedettero i giurati. E ci domanda, senza proclami: che cosa avremmo deciso noi, con lo stesso peso sul petto?


















