Premessa – Poiché si parla e si riparla da mesi del caso Almasri, e poiché la questione sembra non trovare mai un punto fermo tra richieste di chiarimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, polemiche politiche e ricostruzioni parziali, appare opportuno tornare ai fatti per comprenderne il significato autentico. Molti commentatori, infatti, hanno letto la vicenda soltanto alla luce delle contestazioni giuridiche, trascurando il contesto politico e istituzionale in cui maturò la decisione del governo italiano. Questo articolo si propone dunque di ricostruire con obiettività e rigore le motivazioni di quella scelta, chiarendo come e perché l’Italia agì allora nel pieno rispetto delle proprie leggi e, al tempo stesso, nell’interesse superiore della propria sicurezza e di quella dell’intera Europa mediterranea. Il rimpatrio in Libia dell’ex dirigente Al-Nasr non fu un atto arbitrario, ma una decisione necessaria. Il governo evitò di invocare apertamente la ragion di Stato per prudenza istituzionale, confidando che le leggi ordinarie bastassero a giustificarlo. Oggi, alla luce delle contestazioni europee, emerge che quella scelta discreta ma determinante, fu dettata dall’interesse nazionale e dalla salvaguardia dell’intera Europa mediterranea.

La ragione taciuta – Il governo italiano non volle appellarsi pubblicamente alla ragion di Stato, non per reticenza, ma per una scelta di sobrietà e di misura. In quella fase, le leggi ordinarie, le prerogative del governo in materia di sicurezza e le norme di cooperazione internazionale apparivano pienamente sufficienti a fondare il rimpatrio, senza bisogno di invocare un principio straordinario. Richiamare fin da subito la “ragion di Stato” avrebbe avuto l’effetto di innalzare il tono politico del provvedimento, trasformando un atto di diritto interno in una questione di eccezione internazionale. L’Italia preferì dunque procedere nel solco della normalità giuridica, lasciando che la decisione si reggesse sulla forza delle proprie leggi e non sull’enfasi dell’eccezione. Solo oggi, dinanzi alle contestazioni e alle interpretazioni restrittive di alcuni ambienti internazionali, è possibile riconoscere ciò che allora rimase sottinteso: dietro le forme ordinarie agiva, silenziosa ma reale, una ragion di Stato. Non si volle proclamarla per non darle il peso di una dichiarazione estrema, ma essa fu e resta, il fondamento sostanziale della scelta italiana.
Il riserbo come dovere – Il riserbo, in questo contesto, non è stato un espediente, ma una forma di coerenza istituzionale. Il governo scelse quindi il colpo di pistola al posto del colpo di cannone: agire con discrezione e sufficienza di diritto, anziché proclamare l’eccezione come bandiera politica. La prudenza fu dunque un atto di forza, non di debolezza: l’esercizio consapevole del potere entro i limiti della legalità ordinaria.
La salvaguardia europea – Non si trattava, in ogni caso, di una decisione ristretta all’interesse soltanto italiano. Quando i flussi migratori attraversano il Mediterraneo senza controllo, nessun Paese europeo può dirsi estraneo alle conseguenze. Le coste italiane, greche e spagnole rappresentano solo la prima linea di un fenomeno che, se lasciato libero, si estende verso il cuore del continente, alterando equilibri sociali ed economici. È in questo scenario che la scelta italiana assume una portata più ampia: un atto di responsabilità europea, volto a mantenere aperta la cooperazione con la Libia e a garantire che le sue autorità continuassero a esercitare un minimo di controllo sulle partenze. L’Italia, agendo nel proprio diritto, ha in realtà difeso un equilibrio continentale, impedendo che la dissoluzione di un’intesa fragile aprisse la via a una nuova e massiccia ondata migratoria verso l’Europa. La ragion di Stato operò dunque non come privilegio nazionale, ma come strumento di tutela comune, in difesa della stabilità del Mediterraneo e della sicurezza dell’intero spazio europeo.

Il chiarimento di oggi – È in questa luce che va interpretata la lettera di chiarimento trasmessa dal governo italiano alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: un documento che, pur nel linguaggio diplomatico, lascia intendere che la decisione sul caso Al-Nasr fu coerente con il quadro giuridico nazionale e con gli obblighi internazionali dell’Italia. Non si tratta quindi, di un cambio di versione, ma del riconoscimento postumo di ciò che allora non si volle proclamare ossia della ragion di Stato nel senso più alto del termine. Nel futuro, se situazioni analoghe dovessero ripresentarsi, è probabile che la linea del governo resti la stessa: agire nella legalità ordinaria, ma guidati dalla responsabilità superiore di preservare l’interesse nazionale e la sicurezza collettiva europea. Perché la ragion di Stato non è un privilegio del potere, bensì un dovere verso la comunità mentre il silenzio che la accompagna non è una mancanza di trasparenza, ma la più autentica forma di coerenza e di forza che la ragion di Stato impone.




















