Nelle polverose tavolette dell’India antica, i saggi scolpivano parole capaci di dissodare l’anima.
Tra queste, vikṣepa — termine che oggi risuona come un diagnosi definitiva per la psiche del XXI secolo.
Non semplice distrazione, ma un cancro esistenziale come la frammentazione compulsiva della coscienza nell’era dell’iperstimolazione.
Mentre gli algoritmi moltiplicano i nostri sé digitali, la mente diventa un ragno paralizzato nella propria ragnatela, divorato dalle infinite possibilità che ha tessuto.
Nei vicoli affollati delle metropoli e negli schermi sempre accesi, l’uomo moderno ha trasformato il dubbio in una religione.
Ogni like non ricevuto è un inno all’insicurezza, ogni notifica un rintocco del campanello di Pavlov neurologico. Come rivela il verso della Bhagavad Gītā (4.40), il dubbio non è semplice incertezza ma una profezia che si autoavvera, un labirinto dove l’io si smarrisce credendo di cercare risposte.
La neuroscienza conferma ciò che i mistici intuirono millenni fa, il circuito prefrontale, sovraccaricato da decisioni infinite, genera un cortocircuito emozionale. Il risultato? Una generazione che confonde l’ansia con l’intelligenza, il rimuginio con la profondità.
C’è una perversione sottile nel modo in cui l’Occidente ha santificato il pensiero critico.
Abbiamo dimenticato che l’intelletto, quando divorato dall’attaccamento al controllo, genera mostri.
Ogni analisi ossessiva — sul futuro, sul passato, sul significato di un messaggio non risposto — non è ricerca di verità, ma rito sacrificale.
Offriamo la nostra presenza sull’altare di un io che crede di poter imbrigliare l’infinito in formule.
Eppure, come un bambino che afferra l’acqua del mare, più stringiamo i pugni, più l’essenza ci sfugge.
In un mondo che lucra sulla nostra dispersione mentale, fermarsi diventa atto sovversivo.
Le filosofie orientali lo sapevano, quando il corpo impone il riposo attraverso malattie psicosomatiche, non è una maledizione ma un grido d’aiuto.
La “pausa forzata” è l’ultimo tentativo dell’anima di riportarci al centro — quel luogo dove, come scriveva Rilke, “i contrasti cadono e gli opposti si baciano”.
Studi del MIT dimostrano che 11 minuti quotidiani di silenzio rigenerano i neuroni più di qualsiasi farmaco. Eppure, persino la meditazione è stata ridotta a tecnica di produttività, tradendo la sua natura ribelle.
Il paradosso finale? Cercare soluzioni perpetua il problema.
Come insegnano i maestri advaita, non esiste “qualcuno” da curare, solo un’identità fittizia da smascherare. Quando il “pensatore” si dissolve, i pensieri diventano nuvole nel cielo — presenti ma impotenti a scatenare tempeste.
Il default mode network, responsabile dell’autobiografia mentale, si spegne solo quando smettiamo di credere alla sua narrativa.
L’antidoto a vikṣepa non è un’altra app o tecnica, ma il coraggio di cadere nell’abisso del non-fare.
Di diventare il buco nero che inghiotte il vortice digitale.
Ogni secondo di noia non anestetizzato, ogni respiro non condiviso sui social, è un colpo di piccone alle fondamenta del capitalismo della coscienza.
La pace? Non si trova.
Si irradia quando l’identità cessa di lottare, come la luna che non insegue il riflesso nel mare.
Gli algoritmi tremano davanti a chi osa essere un fantasma: presente ma inafferrabile, attivo ma non reattivo, vivo nel mondo senza appartenergli.
L’ultima ribellione è smettere di credere di dover essere salvati.
“Il silenzio non è assenza di rumore, ma presenza di ciò che il rumore ha sempre cercato di soffocare” — e in quell’essenza, persino l’ansia diventa un’orca meccanica che nuota in una goccia di rugiada.
RVSCB



















