Ci sono pellicole che non sono soltanto film, ma fratture storiche, rivoluzioni estetiche, atti fondativi. À bout de souffle – Fino all’ultimo respiro – diretto da Jean-Luc Godard nel 1959, è una di queste. Un’opera capace di riscrivere il linguaggio del cinema, di spezzare le regole e di sfidare ogni tradizione narrativa e visiva. Oggi, un nuovo film riporta il pubblico nel cuore di quei giorni: venti giornate febbrili, girate per le strade di Parigi, in cui nacque il mito della Nouvelle Vague. Non una semplice ricostruzione, ma un’operazione di immersione cinematografica che celebra il coraggio di chi ha trasformato il cinema da mestiere in rivolta artistica.
Parigi 1959: il set che divenne rivoluzione
Il film ripercorre la lavorazione improvvisata, quasi clandestina, di Fino all’ultimo respiro. Niente studi di posa, niente luci hollywoodiane: solo una troupe agguerrita, una camera in spalla e la frenesia di catturare la vita così com’è. Godard, critico dei Cahiers du Cinéma diventato regista, guidava un set in cui il copione cambiava ogni mattina e il montaggio sarebbe diventato leggenda per l’uso rivoluzionario del jump-cut. Al suo fianco un gruppo di giovani cineasti che di lì a poco avrebbero riscritto la storia: François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Demy, Éric Rohmer. Le strade di Parigi non erano semplicemente uno sfondo: erano il manifesto di un cinema che usciva dai salotti borghesi per farsi strada tra caffè pieni di fumo, tetti grigi e luci di semafori all’alba.
Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo: l’innocenza e il disincanto
Il nuovo film restituisce la magia dell’incontro tra i protagonisti originali. Jean Seberg, ventenne, sbarcata dall’America dopo i fallimenti hollywoodiani, trovò in Godard il primo regista in grado di vederla davvero: fragile ma luminosa, ribelle ma pura. Con i capelli corti e l’aria malinconica, divenne simbolo della modernità femminile. Al suo fianco, Jean-Paul Belmondo, 26 anni, pugile dilettante e attore senza gloria, trovò il ruolo della vita: Michel Poiccard, il ladro irriverente che parla alla cinepresa e fuma sigarette come se fossero pensieri. Due volti sconosciuti destinati all’eternità.
Che cos’era davvero la Nouvelle Vague
La Nouvelle Vague non fu una scuola cinematografica, ma un movimento di libertà. Nacque dalle pagine dei Cahiers du Cinéma, rivista fondata nel 1951 da André Bazin. Lì, futuri registi scrivevano recensioni infuocate non per analizzare il cinema, ma per dichiarare guerra al conformismo cinematografico francese. Per loro, il cinema non era un prodotto industriale ma un’arte personale. Da qui nacque la politique des auteurs: ogni film deve avere la voce del suo autore, come un romanzo o un quadro.
La Nouvelle Vague rifiutava tutto: sceneggiature prevedibili, recitazioni impostate, produzioni costose, l’idea stessa di set hollywoodiano. Preferiva la vita reale, le riprese in strada, la luce naturale, l’improvvisazione, la verità. Era il cinema di chi aveva poco denaro ma molte idee, di chi portava la macchina da presa a contatto con il mondo. Era rottura, movimento, energia, disobbedienza. Era cinema giovane, cinema vivo.
Il film nel film: un ritorno al 1959 senza nostalgia.
Il nuovo film evita la trappola della nostalgia accademica. Non è una riproduzione calligrafica ma un ritorno al metodo. La regia sceglie una messa in scena leggera e mobile, immediata, a volte sporca, proprio come voleva Godard. Le inquadrature sembrano rubate alla vita, i dialoghi respirano spontaneità, i luoghi – caffè, camere d’albergo, boulevard – diventano parte integrante del racconto. Nulla è museale. Ogni scena vuole far rivivere ciò che Godard inseguiva: l’attimo.
Il regista del progetto racconta nelle sue note di lavorazione di aver chiesto agli attori di non imitare nessuno: «Non state girando un film d’epoca. State vivendo l’attimo». Sul set si respirava lo stesso rischio del 1959: girare senza sapere se il film sarebbe mai uscito in sala. È questo sentimento a rendere autentico il risultato: non è una rievocazione, ma una riattivazione.
Tra verità e mito: Godard, il ribelle solitario
Jean-Luc Godard viene ritratto senza agiografie: giovane, irascibile, visionario, innamorato del cinema e insofferente alle regole. Non era un uomo facile. Era un rivoluzionario sospettoso del mondo, un intellettuale armato di macchina da presa e sigarette, capace di riscrivere una scena con un biglietto volante. Ma aveva una qualità rara: sapeva credere nel cinema come pochi altri. Voleva fare film che pensassero e film che respirassero. Film che non si potessero imitare.
La bellezza della disobbedienza
Il nuovo film non celebra solo Godard, ma una generazione che sfidò l’industria. Lo fa ricordando che la Nouvelle Vague non nacque per caso: fu un atto politico oltre che artistico. Era la reazione di giovani cineasti che rifiutavano di essere ingabbiati. Senza permessi ufficiali, senza grandi finanziamenti, senza compromessi, realizzarono il cinema con ciò che avevano: idee, amicizia, libertà.
Perché questo film è importante oggi
In un’epoca dominata da franchise, algoritmi e produzioni fotocopia, questo film è un promemoria: il cinema è ancora un’espressione creativa, non solo un prodotto. Ricorda che l’arte vive solo se osa. Fino all’ultimo respiro lo fece nel 1959. Questo film prova a farlo oggi. Non imita la Nouvelle Vague: ne riaccende il fuoco.
Anna Rita Santoro




















