C’è qualcosa di profondamente inquietante quando la giustizia, da garante dei diritti, si trasforma in strumento pedagogico. Quando la sentenza non è più una risposta a un reato dimostrato, ma un monito, un avvertimento, un esempio. È ciò che è accaduto – e sta accadendo – in Francia con la recente condanna a Marine Le Pen, leader del “Rassemblement National”, accusata di appropriazione indebita per l’uso di fondi europei destinati agli assistenti parlamentari.
Condannata a quattro anni di reclusione, due dei quali da scontare con braccialetto elettronico, interdetta dai pubblici uffici per cinque anni, privata della possibilità di candidarsi alle presidenziali del 2027: è una sentenza che ha più il tono della scomunica che del giudizio. Ma su quali basi si regge? L’accusa sostiene che, tra il 2004 e il 2016, Le Pen abbia utilizzato fondi europei vincolati all’attività parlamentare per retribuire collaboratori che in realtà lavoravano per il partito in Francia. Non si nega l’esistenza di quegli assistenti, né il loro impegno: ciò che si contesta è la natura di quell’impegno, ritenuto estraneo alle funzioni previste dal regolamento del Parlamento Europeo.
L’intransigenza formale – Ma qui si apre un primo abisso: come si stabilisce con certezza il confine tra attività parlamentare e attività politica? Non è forse compito di un partito sostenere e rafforzare la presenza dei suoi rappresentanti nelle istituzioni? E chi può dire dove finisce il lavoro di un assistente parlamentare e dove inizia quello di un collaboratore politico, specie quando le due figure coincidono nella stessa persona, nello stesso ufficio, nello stesso impegno quotidiano? I giudici francesi sembrano avere adottato il principio dell’intransigenza formale, secondo cui ogni minima deviazione dalla destinazione specifica dei fondi pubblici costituisce un illecito, a prescindere dal contesto, dalla volontà, dalla funzione effettiva svolta. Ma così facendo, hanno cancellato la sostanza in nome della forma, l’intenzione in nome del regolamento, il buon senso in nome del rigore.
La pena esemplare – Ma ciò che più inquieta è la volontà, chiaramente percepita, di infliggere una pena esemplare. E qui sta il punto più delicato: una pena esemplare è, per sua natura, una pena ingiusta. Lo è perché non misura l’infrazione, ma il bisogno di ammonimento; perché non punisce un colpevole, ma colpisce un simbolo, un caso da offrire in pasto all’opinione pubblica. Lo è perché eccede deliberatamente la misura della pena giusta e, in questo eccesso, tratta l’imputato come una cavia su cui si sperimenta un messaggio, nella speranza che “gli altri capiscano”. Ma la giustizia non è teatro educativo, né palcoscenico morale: è un’istituzione che deve giudicare con rigore ma senza enfasi, e soprattutto senza bisogno di drammatizzare la pena per nobilitare l’intento. La condanna esemplare è un abuso di giustizia, per la sua stessa natura eccedente. E infine, il cuore del diritto penale: l’onere della prova e, con esso, il principio sacrosanto del “favor rei”.
In uno Stato di diritto – Non basta constatare un’irregolarità formale per condannare penalmente una persona. Occorre dimostrare che quell’irregolarità sia stata voluta, perseguita, pianificata in modo fraudolento.
Occorre provare l’intenzionalità, la consapevolezza, il dolo. E se la prova manca – e qui pare mancare, o essere quantomeno incerta – il beneficio del dubbio non è una concessione: è un diritto. In assenza di quella prova, il giudice non può colmare il vuoto con una deduzione, né costruire una colpevolezza supposta a partire da fatti ambigui. Il “dubio pro reo” non è un capriccio garantista, ma la diga che separa il diritto dal sospetto. Naturalmente, nessuno qui nega l’importanza della trasparenza, del rispetto delle regole, della corretta gestione dei fondi pubblici. Ma quando la legge viene applicata con tale rigidità da non ammettere la complessità della politica, quando si punisce un’intera struttura di partito per un uso “improprio”, ma non dimostrato come fraudolento, allora si ha il dovere di alzare la voce. Il diritto, se vuole restare giusto, deve ricordare che l’abuso non sta solo nella violazione delle norme, ma anche nel loro uso distorto per colpire, escludere, regolare i conti. Se questa è giustizia, è bene domandarsi per chi lo sia. Non per l’imputato, né per la verità.