Il 9 aprile 1821 nasceva a Parigi Charles Baudelaire, figura cardine della letteratura francese e mondiale. La sua esistenza fu segnata da eventi tumultuosi: la perdita precoce del padre, un rapporto conflittuale con il patrigno e una vita dissoluta caratterizzata da eccessi e difficoltà economiche. Queste esperienze personali influenzarono profondamente la sua produzione artistica.
La sua opera più celebre, “I fiori del male” (Les Fleurs du Mal, 1857), esplora tematiche come la decadenza, il peccato, la morte e il desiderio di evasione, riflettendo la sua visione pessimistica dell’esistenza. Attraverso una poesia raffinata e musicale, Baudelaire ha saputo estrarre bellezza dal male, anticipando movimenti letterari come il Simbolismo e il Decadentismo.
Un concetto centrale nella sua poetica è lo “spleen”, una profonda malinconia e noia esistenziale derivante dalla consapevolezza della caducità della vita. Questo stato d’animo è magistralmente rappresentato nella poesia “Spleen”, dove descrive l’oppressione di un cielo basso e greve che pesa sull’anima come un coperchio:
“Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, un giorno nero più triste della notte”.
Si dice che tradurre sia un tradimento; e riprodurre nella nostra lingua la forte simbologia dei versi di Baudelaire comporta inevitabilmente una perdita del gusto poetico originario. Ciò non accade perché la nostra lingua sia inferiore a quella francese (si potrebbe discutere a lungo sulla contesa, e forse alla fine prevarrebbe l’idioma del Belpaese), ma perché ogni trasposizione linguistica finisce per smarrire parte del senso primitivo.
Tuttavia, il celebre passo di Baudelaire sintetizza magnificamente il significato di “Spleen”: noia, apatia e disadattamento al mondo. Si concettualizza una sorta di malinconia densa, grigia, quasi corporea che scaturisce dal conflitto tra l’ideale personale e la realtà circostante, dal vuoto di una società sempre più alienante e dalla percezione del tempo, vissuto come lento e opprimente.
Se trasferissimo questo concetto di malessere esistenziale dalla Parigi ottocentesca in evoluzione industriale ai giorni nostri, si noterebbe che un Charles Baudelaire, romano, piacentino o tarantino che fosse, potrebbe tranquillamente rinascere ed esprimere la stessa identica sensazione. Questo perché, sebbene i tempi siano cambiati, le dinamiche interiori e sociali sono rimaste invariate. Il quotidiano stato d’animo di chi si sente estraneo alla realtà che lo circonda – perché inadeguato rispetto ai concetti e alle assurdità di un presente che respinge – potrebbe essere magnificamente espresso dallo spleen dell’autore francese.
Prendiamo ad esempio il fenomeno del “Burnout“. Questo termine indica una sindrome da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale, legata a situazioni di stress cronico, accumulato soprattutto in contesto lavorativo.
L’OMS riconosce tale condizione non una patologia psichiatrica bensì un preoccupante fenomeno occupazionale, circoscritto al mondo dell’impiego. Questo stato psichico emergerebbe come esaurimento psicofisico, sorta di svuotamento emotivo, legato a cinismo, irritabilità e perdita di senso e motivazione.
E se nella febbricitante Parigi in processu aedificandi, il marasma dell’evoluzione industriale e le disattese sociali rendevano il trasformatore della poesia moderna Baudelaire in condizione tale da teorizzare un concetto esistenziale, alienante, dove il tempo diviene un peso e la sensazione di essere fuori luogo quotidiana e dal quale ci si rifugia mediante la poesia, nel pretenzioso e tecnologico mondo contemporaneo, ne nasce invece un altro: da esaurimento, sovraccaricante, dove il tempo è al contrario urgenza e la sensazione di essere sopraffatti può esser mitigata solo dalla psicoterapia.
Insomma, “Spleen” e “Burnout”, cosi diversi nei loro tempi, ma cosi affini nel lambire le sfere più nere dell’animo umano, rivelano entrambi due crisi d’identità: nel primo si è passivi, inermi e disillusi, nel secondo si è schiacciati dall’esigenza frenetica attuale.
“E lunghi funerali, senza tamburi o musica, sfilano lentamente nel cuore; la Speranza, vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica ed atroce, infilza sul mio cranio la sua bandiera nera.”
Charles Baudelaire suggella splendidamente il suo concetto di Spleen nei versi finale del componimento, ma tale lirica rappresentazione potrebbe, in vece della psicanalisi, esser utilizzata in maniera egualmente funzionale per esternare il concetto di Burnout, sostituendosi all’utile ma costoso e spudorato confronto con i professionisti della psiche.
Lungi da questo articolo ovviamente affossare scienza e secoli di esplorazione mentale. Vorrei semplicemente ricordare però, riportando in luce l’aspetto più caldo del grande poeta francese, che la letteratura sarà sempre d’insegnamento, e ci ricorda come testimone dell’esistenza umana che tutto evolve, cambia, varia, si modifica e si adatta. Ma, in fondo in fondo, nell’animo di ogni uomo, nulla alla fine, sostanzialmente muta. E la poesia, lo sa.