Le recenti dichiarazioni del cancelliere tedesco Friedrich Merz – secondo cui Israele starebbe “facendo il lavoro sporco in Iran per conto dell’Occidente” – hanno suscitato reazioni contrastanti e rilanciato il dibattito sul ruolo geopolitico di Israele nel sistema internazionale. Tali parole, volutamente ambigue, pongono una domanda cruciale: Israele è una potenza asservita all’Occidente, strumento di una strategia più ampia che si decide altrove, oppure è la testa di ariete, il bastione avanzato di un ordine occidentale che ha delegato a Tel Aviv compiti che nessun altro può o vuole svolgere?
Ipotesi 1: Israele come potenza asservita
Secondo questa prospettiva, Israele agirebbe in funzione di interessi strategici occidentali – in particolare statunitensi – nell’area mediorientale. Le sue azioni, incluse operazioni coperte in Iran, servirebbero a contenere nemici comuni (come l’Iran sciita) senza che gli Stati Uniti e i loro alleati europei debbano esporsi direttamente. Il sostegno militare, economico e diplomatico che Israele riceve dagli USA (oltre 3 miliardi di dollari l’anno) rafforzerebbe l’idea di una relazione simile a quella che un vassallo intrattiene con il suo protettore: in cambio di sicurezza e influenza, Israele agirebbe come longa manus dell’imperialismo occidentale.
In questa ipotesi, le decisioni israeliane – soprattutto in materia di sicurezza esterna – risponderebbero a una logica di “proxy warfare”, in cui Tel Aviv agisce per conto terzi, spesso assumendosi i costi politici e le ritorsioni internazionali. Le operazioni mirate contro il programma nucleare iraniano, così come i raid non rivendicati contro obiettivi iraniani in Siria o Iraq, potrebbero essere letti come atti preventivi che fanno risparmiare all’Occidente un conflitto aperto.
Ipotesi 2: Israele come testa di ariete dell’Occidente
Una lettura alternativa e più assertiva propone Israele come avanguardia dell’Occidente, una potenza autonoma che condivide con Stati Uniti ed Europa una visione del mondo fondata su sicurezza, ordine liberale e opposizione alle autocrazie islamiche e post-sovietiche. In questo scenario, Israele non esegue ordini: li anticipa. È la frontiera armata di un sistema che considera la stabilità del Medio Oriente una condizione essenziale per la propria sopravvivenza economica e strategica.
Israele, in questa ottica, agisce non perché “costretto” o subordinato, ma perché convinto che i suoi interessi coincidano con quelli dell’Occidente. Le sue azioni in Iran diventano allora una forma di guerra preventiva civilizzatrice, finalizzata a difendere la propria esistenza e, insieme, la sicurezza globale occidentale. L’innovazione militare, l’intelligence e la diplomazia parallela ne fanno una punta di lancia: aggressiva, ma necessaria.
Una terza via? Interessi convergenti, non subordinati
Le due ipotesi non si escludono necessariamente. È possibile che Israele sia contemporaneamente un attore autonomo e parte di un disegno più ampio. In questo senso, il “lavoro sporco” evocato da Merz potrebbe essere non tanto un atto delegato, ma una convergenza di interessi tra potenze che condividono la percezione di una minaccia esistenziale: l’Iran.
Israele trae vantaggio dalla copertura diplomatica e militare occidentale, ma non si fa dettare l’agenda. Al contrario, contribuisce a determinarla. In un mondo multipolare e instabile, Israele può essere letto come una figura ibrida: non vassallo, ma partner muscolare di un Occidente che preferisce delegare la forza quando la diplomazia non basta.
Le parole di Friedrich Merz, pur formulate con un linguaggio provocatorio, offrono l’occasione per riflettere sulla natura del rapporto tra Israele e l’Occidente. Qualunque sia la lettura adottata – subordinazione, leadership o convergenza autonoma – una cosa è certa: Israele non è un semplice spettatore del disordine globale, ma uno degli attori centrali nella sua gestione, spesso attraverso strumenti che altri preferiscono non usare.