Il 29 giugno, Roma si ferma. Non per un capriccio del calendario, ma perché la città ricorda le sue due colonne: San Pietro e San Paolo, apostoli, martiri e patroni che, pur così diversi, condivisero una sorte comune e una stessa fine: versare il proprio sangue nella capitale dell’Impero per amore del Vangelo.
Pietro, pescatore galileo, fu scelto da Gesù come fondamento della Chiesa: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Paolo, cittadino romano, dotto fariseo, fu prima persecutore e poi instancabile apostolo dei pagani, convertito sulla via di Damasco. Entrambi subirono il martirio a Roma: Pietro, crocifisso a testa in giù sul colle Vaticano; Paolo, decapitato lungo la via Ostiense. Le basiliche a loro dedicate sorgono nei luoghi del loro sacrificio.
Sin dal IV secolo, Roma celebra questa doppia eredità con una festa che unisce sacro e popolare. Il clou era la vigilia, il 28 giugno: la cupola di San Pietro veniva accesa da migliaia di fiaccole, tanto da sembrare in fiamme. L’effetto, descritto da poeti e viaggiatori, lasciava romani e forestieri senza fiato, come in un prodigioso abbraccio di luce. Poco distante, Castel Sant’Angelo si illuminava con la celebre “Girandola”: fuochi d’artificio spettacolari, ideati da Michelangelo e poi perfezionati da Bernini. Tre medaglie pontificie celebrano quest’arte pirotecnica, e perfino le pitture vaticane ne conservano memoria.
Anche quest’anno la tradizione continua: la Girandola sarà visibile questa sera, alle ore 21.30, a Castel Sant’Angelo, regalando ancora una volta alla Città Eterna uno spettacolo indimenticabile.
E proprio nella notte della vigilia della festa patrona, il 28 giugno che si consumava uno dei riti più suggestivi e peculiari della romanità barocca: la solenne benedizione impartita dal pontefice, che secondo il folclore popolare veniva immediatamente seguita da una scomunica indirizzata al principe Colonna, accusato di non aver corrisposto il tradizionale tributo papale. I ragazzini accorrevano allora alle mura del palazzo Colonna, poggiando l’orecchio speranzosi di sentire tremare le pietre sotto il peso della condanna. Una condanna a cui, subito dopo, si poneva rimedio con una speciale benedizione: come a dire, tra sacro e teatrale, che tutto poteva ancora essere salvato, anche nella più irreparabile delle rovine.
Lungo i secoli, la festa ha assunto forme sempre più teatrali. Celebre il corteo della “chinea”: una mula bianchissima, carica di scudi d’oro, veniva offerta dal Regno di Napoli al Papa in segno di sottomissione. La cerimonia, fastosa e politica, si svolgeva tra piazza Santi Apostoli e San Pietro, culminando con il bacio del piede della statua bronzea del Principe degli Apostoli, consumato da secoli di devozione. Pio IX vi legò perfino un’indulgenza plenaria.
Il popolo viveva tutto con coinvolgente ironia. Racconti ottocenteschi narrano di San Pietro e San Paolo “incappottati” con cartelli ironici: “Me ne vado da Roma, Sisto vuole vendicarsi dell’orecchio che tagliai a Malco!”. La battuta, tratta da un episodio satirico ambientato nel tardo Cinquecento, fa riferimento alla decisione di Papa Sisto V di far estradare a Roma un assassino rifugiato da trent’anni a Firenze: in quell’occasione, la statua di San Pietro fu trovata “incappottata” come in partenza, con accanto un cartello di San Paolo che recitava: “Allora vado via anch’io, non vorrei m’imputassero le mie persecuzioni contro i cristiani”. Le statue, come da tradizione romana, parlavano davvero, dando voce al sentire popolare.
Un altro elemento simbolico è la “nassa del pescatore”, appesa ogni anno all’ingresso della Basilica Vaticana: un barilotto di ferro ricoperto di mortella, a ricordare l’umile origine di Pietro come pescatore di pesci prima che di anime. In chiesa, il piede della statua di San Pietro, levigato dai baci, continua a raccogliere fede e superstizione.
Oggi, pur spente molte tradizioni, la città celebra ancora con intensità. La Messa papale e i “vesperoni” nella basilica, i tappeti dell’infiorata, la Girandola moderna, i cori della Cappella Sistina, tutto racconta una Roma che non dimentica. Pietro e Paolo restano i patroni dell’Urbe, testimoni di una fede viva, forti nei secoli, romani per adozione e celesti per vocazione.
Il 29 giugno, dunque, non è soltanto una ricorrenza religiosa, ma si configura come la festa di un’identità civica e spirituale in cui si rispecchia, ogni anno, la Roma eterna: barocca e popolare, devota e irridente, luminosa di fede e di fuochi, consapevole delle sue contraddizioni eppure orgogliosa di celebrarle, come solo lei sa fare.