Nella luce ambrata del tramonto che avvolge i Fori Imperiali, tra le pietre millenarie che raccontano glorie passate, si consuma un dramma moderno.
Quello di una città sospesa tra il mito e il degrado, tra l’orgoglio di essere capitale e la vergogna di non riuscire a nascondere le crepe.
Roma, scrigno di storia e culla della civiltà occidentale, è oggi il palcoscenico di una contraddizione stridente: l’ascesa di una borghesia radical chic che predica l’uguaglianza ma pratica l’esclusione, che celebra la cultura mentre svende l’identità.
Il fenomeno è un paradosso che si annida tra i vicoli di Trastevere, tra i locali alla moda di Monti e le gallerie d’arte di San Lorenzo.
Qui, tra aperitivi biologici e vernissage dal sapore rivoluzionario, una casta intellettuale si crogiola nel culto dell’apparenza.
Sono avvocati progressisti che difendono i diritti umani ma ignorano i senza tetto sotto i loro portoni, architetti che progettano eco-villette blindate mentre i quartieri popolari affondano nell’immondizia, influencer che lanciano hashtag sulla sostenibilità e poi volano in jet privati per un weekend a Parigi.
La crisi dei rifiuti, ciclica e irrisolta, è il simbolo di questa frattura.
Mentre i cassonetti traboccano e i topi diventano sovrani notturni di Piazza Vittorio, i salotti buoni brindano al “decrescere felice”, serviti da catering a km zero in ville liberty riconvertite.
L’emergenza igienico-sanitaria, denunciata dai comitati di periferia con la disperazione di chi non ha microfoni a raccoglierne le proteste, diventa per loro un’occasione di dibattito estetizzante.
Un teatro dell’assurdo dove la retorica progressista si scontra con l’inerzia concreta, dove ogni slogan si dissolve come nebbia su Via dei Condotti.
Il turismo di massa, cancro e linfa vitale della città, offre un altro spaccato di questa ipocrisia stratificata.
I palazzi storici, svenduti a fondi d’investimento stranieri per farne suite da 2.000 euro a notte, svuotano il centro storico dei suoi abitanti.
Gli stessi che organizzano eventi contro la gentrificazione, magari in ex fabbriche occupate trasformate in club esclusivi.
Intanto, le botteghe centenarie chiudono una dopo l’altra, sostituite da negozi di artigianato low-cost per turisti e showroom di lusso che vendono “autenticità romana” in confezione sterilizzata.
Ogni mattone sradicato, ogni insegna spenta, è un tassello della memoria collettiva che svanisce.
Eppure, nelle riunioni condominiali dei palazzi patinati, si discute con fervore di “preservare lo spirito del quartiere” — purché non disturbi il design minimal degli appartamenti o il silenzio ovattato richiesto dai nuovi residenti globali.
La politica non è immune da questo cortocircuito morale.
I circoli culturali che dettano l’agenda progressista — tra cene di fundraising a base di ostriche e reading di poesia engagée — hanno trasformato il sociale in un accessorio da sfoggiare. Le battaglie per i diritti civili diventano campagne di autopromozione, i cortei si riducono a sfilate di stile dove l’ultimo grido è l’etica. Intanto, nelle periferie dove i bus arrancano e gli ospedali sono al collasso, l’unica solidarietà che arriva è quella dei volontari domenicali in cerca di foto commoventi per i loro profili Instagram.
Persino la spiritualità viene mercificata. Le chiese sconsacrate ospitano ora cocktail bar “illuminati”, mentre i monasteri s’affittano per ritiri yoga a prezzi da hedge fund.
Lo stesso Vaticano, osservatorio privilegiato di questa metamorfosi, assiste impotente alla secolarizzazione del sacro: i pellegrini veri vengono soffocati da frotte di turisti in cerca di selfie, e le parrocchie storiche lottano per sopravvivere tra la concorrenza dei centri benessere olistici che promettono nirvana a rate.
Il paradosso più amaro si cela però nell’uso strumentale della cultura.
I teatri pubblici, costretti a tagliare stagioni per mancanza di fondi, vedono fiorire accanto a sé teatri privati finanziati dagli stessi mecenati che siedono nei consigli d’amministrazione culturali.
Un gioco delle parti dove l’élite si autocelebra come salvatrice della bellezza, dopo averne privatizzato i frutti. Le mostre “pop” su Caravaggio o Raffaello, sponsorizzate da multinazionali che pagano meno tasse di un venditore ambulante, sono la perfetta metafora di questo saccheggio: opere nate per il popolo trasformate in attrazioni per pochi.
E mentre la città sprofonda in una crisi identitaria — sospesa tra il peso della Storia e l’avidità del presente — i veri romani, quelli che nelle osterie di Testaccio ancora parlano in dialetto e cucinano le frattaglie, assistono all’estinzione della loro Roma.
Quella delle botteghe che sapevano ogni segreto dei clienti, delle fontanelle come punti d’incontro, delle strade che erano salotti a cielo aperto.
Un patrimonio immateriale che nessuna guida turistica potrà mai riprodurre, né tanto meno sostituire.
La domanda brucia come l’asfalto d’agosto: può un’élite che pratica il distacco come filosofia di vita pretendere di guidare il cambiamento sociale?
O siamo di fronte all’ultimo, raffinato colonialismo: quello di chi conquista non con le armi, ma con il capitale simbolico, trasformando persino la ribellione in merce di scambio?
Roma, eterna ma non immortale, rischia di diventare il set di se stessa: una scenografia perfetta per fotografie patinate, svuotata dell’anima che l’ha resa unica.
Mentre i radical chic brindano al loro progressismo selettivo, la città vera — quella delle piaghe aperte e della vitalità ruvIda osserva sdegnata.
RVSCB

















