Da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, la scena internazionale appare sospesa tra due epoche, quella della supremazia militare americana globale che è ormai al tramonto e quella della nuova ma ancora incerta potenza che cerca di riorientarsi entro i confini più realistici del proprio potere effettivo. È un passaggio epocale, perché gli Stati Uniti non rinunciano al primato, ma ne ridefiniscono la forma: da egemonia planetaria a leadership perimetrale, fondata più sulla pressione economica e la negoziazione asimmetrica che sull’intervento diretto. Trump ha intuito, forse meglio di molti analisti, che l’oceano non è più il mare della libertà americana, ma il limite del suo dominio. Le rotte marittime che un tempo garantivano la penetrazione strategica degli Stati Uniti oggi sono costellate di presenze concorrenti: la marina cinese nel Pacifico, la flotta russa artica, i traffici energetici controllati dai Paesi del Golfo, e persino la crescente influenza turca nel Mediterraneo. Il potere di proiezione, fondamento dell’egemonia statunitense del XX secolo, si è logorato nel mare stesso che ne fu il veicolo. E Trump, che non è un uomo di ideologie ma di fiuto, ha deciso di risalire la corrente, tornando al principio di prossimità: dominare non il mondo, ma i perimetri che toccano gli Stati Uniti.

Tutto avrà un prezzo – E’in questa logica che va letta la sua nuova dottrina: da una parte il protezionismo economico elevato a strumento di politica estera, con tariffe universali del 10% e barriere selettive sui prodotti strategici; dall’altra la contrattualizzazione dell’alleanza, cioè la trasformazione dei rapporti multilaterali in negoziati bilaterali di scambio puro. “America First” non è più uno slogan ideologico, ma una formula operativa: se l’America deve garantire la difesa dell’Europa, questa deve pagare il prezzo. Se la NATO vuole sopravvivere, deve diventare un affare redditizio. E se la Cina vuole commerciare, deve cedere sui materiali critici, sui dazi e sulla sicurezza informatica. La potenza americana non si esercita più col cannone, ma col dazio. È un’arma più silenziosa e più redditizia: non uccide, ma impoverisce o ricompensa secondo convenienza. E in questo senso Trump non ha inventato nulla, ha solo portato all’estremo il principio di potere negoziale che già Kissinger aveva intuito, ma che l’America globalista aveva dimenticato.
Il “ristringimento” – In parallelo, si assiste a un’altra trasformazione, più sottile ma altrettanto profonda:. Gli Stati Uniti restringono il loro campo d’azione al Nord Atlantico, al Pacifico occidentale e al bacino artico, cioè alle aree dove l’influenza è ancora misurabile in termini di controllo diretto delle rotte e delle risorse. È in questa chiave che va interpretato l’interesse improvviso per la Groenlandia, non più vista come terra remota, ma come prolungamento naturale del continente americano e come piattaforma mineraria e militare di straordinaria importanza per il secolo dell’Artico. La Groenlandia è, per Trump, ciò che fu Panama per Theodore Roosevelt: una cerniera geopolitica. La differenza è che oggi non si tratta di aprire un canale tra due oceani, ma di sigillare un confine tra due potenze: quella americana e quella russo-cinese. Il controllo del Nord, con i suoi passaggi marittimi emergenti a causa dello scioglimento dei ghiacci, rappresenta infatti la nuova frontiera della potenza: il punto in cui si decide chi controllerà il traffico energetico e minerario dei prossimi decenni.
La “supremazia perimetrale” – In questa strategia di contenimento e riadattamento, Trump sembra voler riscoprire il vecchio principio di Monroe, ma in chiave economica: “l’emisfero occidentale agli americani”, non più come esclusione delle potenze europee, ma come riserva di stabilità economica e politica da contrapporre al blocco asiatico. In altre parole, l’America cerca di ricolonizzare se stessa, riassorbendo le sue dipendenze industriali e riallineando le sue alleanze. È una forma di decoupling selettivo, non la chiusura isolazionista che molti temono, ma una redistribuzione delle priorità. Tuttavia, questa nuova dottrina della supremazia perimetrale presenta un rischio: quello di ridurre il potere d’influenza statunitense al raggio del suo stesso interesse immediato.
Nel breve periodo – Gli Stati Uniti, rinunciando al ruolo di arbitro universale, potrebbero perdere la capacità di costruire consenso internazionale, e restare imprigionati in una diplomazia di scambio, dove ogni alleato è anche un cliente, e ogni trattato una fattura. Eppure, nel breve periodo, la mossa di Trump appare vincente. L’Europa, costretta a raddoppiare le spese per la difesa, dipende ancora dagli armamenti americani; la Cina, pur opponendosi, ha ripreso ad acquistare grano e semiconduttori statunitensi; il Medio Oriente, frammentato ma stremato, chiede proprio a Washington di mediare. La forza dell’America, dunque, non è più nel suo esercito ma nella sua indispensabilità: un potere che non si vede, ma che si avverte ogni volta che si cerca un equilibrio e si scopre che nessuno può darlo senza l’assenso di Washington. In questo nuovo ordine contrattuale, Trump non è più il costruttore di muri, ma il negoziatore di confini. È un realista che ha compreso la fine dell’impero marittimo e l’inizio dell’impero dell’accesso: chi controlla le porte, non ha bisogno di conquistare le stanze. Ma Trump si sta preparando anche ad altro.


















