Il 13 maggio 2025 al Teatro Nuovo Ateneo dell’Universita La Sapienza si è tenuta la proiezione del film di Michele Placido dedicato all’iter artistico e personale di Luigi Pirandello. L’evento ha avuto luogo presso il Teatro dell’Ateneo, uno spazio teatrale e cinematografici che torna a vivere dopo anni di chiusura arricchendo culturalmente l’Università e la città di Roma.
Il film, uscito in sala in concomitanza con il novantennio del Premio Nobel consegnato al letterato e drammaturgo nel 1934, ha saputo coinvolgere ed emozionare il pubblico.
Dopo il discorso inaugurale della Rettrice Antonella Polimeni registrato in video, ha preso la parola la professoressa Beatrice Alfonzetti la quale ha parlato dei risvolti poco conosciuti della vita e dell’opera di Luigi Pirandello. Ha definito il grande autore un “viaggiatore nella mente e nell’anima”. Ha apprezzato molto la scelta del titolo che Michele Placido aveva dato al suo film. “L’eterno visiovario” sarebbe in linea con ciò che Luigi Pirandello scrive nei suoi “Giganti della montagna”, opera che non fa in tempo a finire. Uno dei personaggi dei “Giganti” è Cotrone. Un mago, un poeta, un creatore dei sogni.
La visionarietà di Pirandello è la creazione fantastica che ha una peculiarità. È un viaggio che fa venir fuori ciò che è dentro l’uomo. La drammaturgia del sogno. E Michele Placido segue, quindi, anch’egli la scia dell’onirico, in un contesto in cui la conoscenza delle cose è parziale, filtrata dalla propria personalità.
La Professoressa Alfonzetti ha trovato interessante e positivo il rilievo che è stato dato all’attrice e musa ispiratrice di Pirandello, Marta Abba. Marta arriva alla massima espressione del suo talento in “Nostra dea” di Bontempelli messa in scena da Pirandello nel suo Teatro d’arte che, da lì a poco, avrebbe divuto chiudere sciogliendo la compagnia degli attori e andando in esilio a Berlino dove avrebbe sognato a tutti i costi di riscattarsi. È da lì che scrive per Marta Abba la piece “Diana e la Tuda” e numerose lettere e dediche come quella famosa “A Marta Abba, per non morire”. Pirandello ha lasciato una buona parte del suo patrimonio, materiale e artistico, alla sua musa. I parenti dell’autore, non volendo accettare il testamento da lui firmato, facevano cause a Marta Abba fin quando restava in vita.
La professoressa Alfonzetti ha fornito così il contesto al film lasciando, poi, spazio al regista Michele Placido. Per Placido, il grande drammaturgo siciliano è un po’ un padre putativo. Allo studio dei testi pirandelliani egli si dedica ancor giovanissimo e continua a metterli in scena per svariati decenni. I monologhi che ha sempre preferito sono “L’uomo dal fiore in bocca” e “La carriola”. Suggeritigli dal proprio istinto e consigliati da Leonardo Sciacia, questi testi parlano di un uomo alle prese con la morte imminente e con l’immagine di sé agli occhi degli altri che non riesce mai a conciliarsi con quella che ognuno di noi ha di se stesso.
“Ho aspettato di diventare “ancien” per fare questo film perché ci vuole il vissuto, non solo l’esperienza professionale”, – confessa Michele Placido. “Mi sono raffigurato molto in Luigi Pirandello: ho la stessa passione per il cinema che aveva lui, la sua storia d’amore è la mia storia, mi riconosco in lui quando si definisce un vecchio che ha il cuore caldo”.
Nel vissuto di Pirandello si intreccia la storia e la Storia, e Michele Placido, regista dell’essenziale, ne fa un film viscerale e anticonformista.
Placido ha una formazione professionale che lo porta a gestire non poche contraddizioni. Rifiuta l’Accademia, nel senso di una scuola capace di deformare più che formare, ma, allo stesso tempo, collabora spesso con le istituzioni statali comprese scuole di teatro. Non la vive come un enigma irrisolvibile appellandosi al buon senso e alla misura.
Ama ricordare l’infanzia e l’adolescenza, anni più importanti nell’autentica impostazione di una forma mentis. All’epoca, il suo teatro era il paese natio arroccatosi su una collina del foggiano. Imitava gente del paese, si ispirava ai personaggi della sua terra, contraddittori anche loro: i briganti, da una parte, e Padre Pio, dall’altra. Non mancava Platone di cui amava recitare i Dialoghi.
Tutte le sue regie si costruiscono meticolosamente attorno al lavoro degli attori. “Sono un attore prima ancora di essere regista, non parto dall’estetica, parto dalle prove con gli attori e con le attrici”, – dichiara l’autore dell'”Eterno visionario”.
Nel film dedicato a Pirandello, Michele Placido mantiene la teatralità nel suo sguardo cinematografico. Nella seconda parte del film arriva il cinema anche nella storia narrata: Pirandello riceve una proposta di fare cinema a Berlino. E, come Pirandello, Placido resta sul filo del rasoio fra i due mezzi di espressione più potenti che sono il teatro e il cinema. Le sue regie teatrali e liriche sono troppo “cinematografiche” (“Don Giovanni” ne è un esempio calzante), le sue regie cinematografiche sono, a volte, volutamente “teatrali” (“Ovunque sei”, “Il Grande sogno”, “L’ombra di Caravaggio” celano in sé non pochi elementi teatrali). Quale dei due mezzi vince la partita? Nessuno. Sono, per Placido, come due vasi comunicanti, che possono co-esistere se mantenuti in un perfetto equilibrio.
Un’altra contraddizione dell’attore regista è il suo atteggiamento nei confronti degli spertatori. Anche se sostiene, Placido, che il pubblico andrebbe preso a schiaffi, non va mai oltre a una provocazione. Michele Placido non manca mai di rispetto al proprio pubblico: si è messo una vita a coltivarlo. E si interessa sempre ai linguaggi, ai ritmi, agli argomenti che cambiano. Non realizza storie che interessano solo a lui stesso, ma va quasi sempre a pescare una storia nei fatti di una cronaca, fra le righe di un giornale. L’atteggiamento di Michele Placido nei confronti del pubblico è viscerale e risente della stessa passione che contraddistingue la sua sfera emotiva.
“Non ho mai avuto paura del pubblico, solo della scuola. Perché mi voleva domare. Ma penso che, per esempio, un Caravaggio domato non avrebbe mai rivoluzionato la pittura”, – afferma Placido.
Lo notarono Dacia Maraini e Monica Vitti vedendolo recitare una parte nello spettacolo tratto dal testo di Italo Calvino. Così fu scelto come Tonino, il giovane amante di “Teresa la ladra”, film di Carlo Di Palma a cui seguirono il “Romanzo popolare” di Monicelli e “Dio mio, come sono caduta in basso” di Luigi Comencini.
E oggi, gli studenti gli chiedono che cosa sarebbe cambiato fra fare gli attori negli anni settanta e farli adesso. “Forse, le scuole erano più dure”, – ipotizza. Racconta che non riusciva a concentrarsi se doveva studiare cose a cui non teneva. Il liceo industriale lo avrebbe distrutto, mentre il teatro avrebbe aperto una strada verso la guarigione Perché a teatro si lavora in squadra. E si fa, come diceva Strehler, un corpo a corpo con gli attori
Non fu una passeggiata nemmeno il suo esordio registico. Tornando a casa dal mare, incontrò un raccoglitore dei pomodori, oriundo del Ghana, e lo sentì raccontare la sua storia. La trascrisse su una pagina, chiamò Petraglia, uno degli sceneggiatori de “La Piovra”, chiamò un onorevole per un eventuale finanziamento. Fu così che nacque “Pumnaro'”, film precursore di tutte le opere cinematografiche che avrebbero parlato dell’immigrazione come “Lamerica” di Gianni Amelio, “”Vesna va veloce” di Carlo Mazzacurati fino ad arrivare a “Io, Capitano” di Matteo Garrone, trentatré anni dopo il “Pumnarò”. Nel 1990 sembrava un autentico ritorno ai tempi d’oro del cinema italiano del dopoguerra. Lo chiamarono il “neo-neorealismo”. Cannes prese l’opera per proiettarla nella categoria “Un certain regard”. La stessa sorte che toccò anche alle “Amiche del cuore”.
“Sono partito con cose difficili, non popolari”, – ammette Michele Placido, per poi ricordare a malincuore: “Con tre persone in sala”.
Fece anche scelte per così dire commerciali. Eppure non si tradì, tornando pure alle cose difficili, ma raffinando e perfezionando la narrazione cinematografica, i ritmi, il montaggio, ma, prima ancora, la caratterizzazione dei personaggi.
Michele Placido è, in fondo un attore è regista intellettuale che ha sempre voluto parlare con il suo spettatore un linguaggio chiaro e comprensibile, non avendo paura di essere, per questo, tacciato come “nazional-popolare”. Si ribella alle definizioni e ai giudizi. Con ogni nuova opera, teatrale o cinematografica che sia, inizia sempre da zero e, di film in film, si porta appresso solo la sincerità della sua passione.
Se gli chiedono come lavora con gli attori, risponde: “Dò a loro le mie emozioni. In continuazione. Perciò, tutti i tecnici devono essere presenti alle mie prove con gli attori. Perché si può a volte girare un’ottima improvvisazione che l’attore fa in prova. Conosco la fragilità degli attori e delle attrici, e ne colgo ogni attimo. Me ne innamoro”. E poi ricorda Bergman che si sposò, nel tempo, ben cinque attrici. La risata in sala, e il pubblico è di nuovo pronto ad ascoltarlo.
E adesso? Sta preparando un film sulla “stidda”. Torna alle storie criminali che lo hanno sempre colpito perché si tratta di giustizia. Ma, allo stesso tempo, rilegge Shakespeare. Si rende conto che il vero pericolo della società (le vere “anime nere”) non sono i pazzi come Ofelia, Amleto, Re Lear. Ma quelli che non potranno mai diventare pazzi perché fin troppo razionali: MacBeth e Iago.
Fra i prossimi progetti di Michele Placido c’è la regia di uno spettacolo su Shakespeare fatto con attori non professionisti. È contraddittorio al massimo. Ma sempre passionale e sincero. Michele Placido.
In foto: Michele Placido alla prima dell’Eterno visionario” con Nicola Acunzo e Renato Moscato
Olga Matsyna