La Ballata di Elisbra è un poema che rapisce, un canto sospeso tra mito e memoria, in cui la scrittura di Edvaldo Scatolone fonde immagini epiche e riflessioni intime, costruendo un universo che è al tempo stesso reale e trasfigurato. Non si tratta di un semplice racconto fantasy, ma di un affresco visionario in cui ogni parola vibra come nota di un’antica lira.
Le immagini scolpite nei versi hanno la potenza di simboli universali. Così si apre un frammento notturno:
“Notte cupa quella che giunge. Andato via l’inverno con le sue gelide certezze, cosa ti resta se non piegare il capo dinnanzi ai vessilli dei Maghi che avanzano? Cosa possono la robusta quercia e la bella rosa dinnanzi all’incendio capace di infiammare il cielo?”
Qui la natura stessa – quercia e rosa – si piega all’assalto del fuoco e dei maghi, immagine grandiosa di un destino che travolge ogni certezza.
Ma la ballata non vive solo di battaglie e presagi: è anche introspezione, peso di scelte mancate, riflessione sull’arduo cammino umano. Così risuona la voce di Razim, Signore degli Orsi:
“Quanto peseranno le strade sinora non ancora percorse nessuno può dirlo, di certo esse rimarranno nelle nostre menti come tremolanti luci all’alba d’un orizzonte incerto. Forse abbiamo peccato di poco coraggio e dovevamo seguire quelle tremolanti e moribonde luci nella notte cupa o forse non avevamo altra scelta che perderci per queste aspre ripe grigie.”
Un passo che trasforma l’epopea in confessione, ricordando al lettore che le vie non scelte sono ferite silenziose che ci accompagnano.
Ed ecco che la voce epica si leva ancora più alta, quando parla Edelvalt, Cavaliere di Arim. Nel turbine della guerra e del sacrificio, egli diventa incarnazione del coraggio: le sue parole echeggiano come un giuramento, un inno di fedeltà che non teme la caduta, perché sa che la gloria e l’onore sopravvivono oltre la morte. Le immagini del vento che gonfia gli stendardi, della neve che cade sugli spalti, dei trabucchi che spezzano le mura, scolpiscono la scena di una battaglia che non appartiene a un tempo preciso, ma a tutti i tempi.
È proprio in questa alternanza che risiede l’incanto della Ballata: epica e lirica si intrecciano, la grandezza del mito convive con il sussurro dell’anima. Ogni voce – quella dei maghi, di Razim, di Edelvalt – non è solo un personaggio, ma un archetipo: la paura, la speranza, il sacrificio.
La città di Patavium, con le sue piazze, palazzi e torri, diventa palcoscenico trasfigurato: un luogo reale che si fa mitico, un ponte tra la nostra terra e l’altrove immaginario.
La Ballata di Elisbra è un’opera che cattura, che avvolge e che lascia nel lettore la sensazione di aver varcato un confine: quello che separa la realtà dal mito.
Un canto che non si esaurisce con l’ultima pagina, perché continua a risuonare come un’eco interiore, spingendoci a guardare il mondo con occhi nuovi.



















