Nella penombra solenne della Basilica Vaticana, mentre i riflessi dorati dell’altare della Confessione accarezzavano le alabarde lucenti, 27 reclute della Guardia Svizzera Pontificia hanno vissuto ieri una giornata destinata a scolpirsi nella memoria della Chiesa.
Un rito antico, sospeso tra cielo e terra, culminato con il giuramento nel Cortile San Damaso, ma preparato dall’omelia del cardinale Pietro Parolin: un discorso che ha svelato l’anima nascosta del corpo militare più emblematico della Cristianità.
Nella ricorrenza di san Francesco d’Assisi, il Segretario di Stato ha tessuto un parallelo audace tra il Poverello e i giovani soldati. “La loro lealtà”, ha spiegato Parolin con voce grave, “non è un atto di forza, ma l’esito di un’amicizia intima con Cristo”. Un richiamo potente, che trasforma il servizio armato in mistica oblazione. “Come Francesco – ha proseguito – essi non difendono un’idea, ma custodiscono una Persona: il Successore di Pietro”.
Il riferimento alla preghiera come “linfa della fedeltà” ha squarciato il velo su un dettaglio spesso dimenticato: quelle ore di guardia, immobili sotto il colonnato berniniano, diventano per gli alabardieri silenzi carichi di colloquio divino. “Nella solitudine delle sentinelle”, ha sottolineato il porporato, “Dio semina il coraggio di resistere alle sirene del mondo”.
L’invito a “coltivare la vita interiore” risuona come un manifesto anticonformista in un’epoca ossessionata dal rumore. Parolin, citando Leone XIV, ha sfidato le reclute a diventare “messaggeri di unità” attraverso la disciplina interiore: “Solo chi obbedisce a Cristo – ha ammonito – impara a vedere i piccoli, quelli che il potere calpesta”. Una provocazione non solo spirituale, ma sociale: in un Vaticano scosso da tensioni curiali, la Guardia Svizzera si erge a baluardo di coerenza.
Tra i presenti, la presidente svizzera Karin Keller-Sutter osservava con occhio esperto la coreografia sacrale. La presenza del cantone di Uri – culla storica del Corpo – non è mera folcloristica reminiscenza. Dietro le uniformi rinascimentali pulsano questioni diplomatiche delicate: il rapporto tra Berna e il Vaticano, la sfida della laicità, il ruolo delle monarchie nel XXI secolo.
La vigilia del giuramento ha visto un altro atto simbolico: l’arcivescovo Peña Parra che consegna decorazioni nella piazza dei Protomartiri. Un gesto carico di stratificazioni: quelle medaglie non premiano eroismi bellici, ma virtù monastiche – pazienza, umiltà, perseveranza. È questo il paradosso della Guardia: un esercito che vince disarmato.
Mentre i social media trasformano ogni evento in meme, il rito d’ieri sfida l’effimero. Le foto ufficiali – elmi piumati contro il biancore del cortile – diventeranno icone senza tempo. Ma nel sottotesto, la Chiesa lancia un messaggio ai giovani: in un mondo liquido, solo le radici profonde resistono alla tempesta.
Forse la risposta sta nelle parole non dette. Quando Parolin ha affidato le reclute a san Nicola di Flüe – patrono della neutralità elvetica – ha svelato l’alchimia segreta del Corpo: sintesi di fede incrollabile e pragmatismo nordico. Un equilibrio che trasforma mercenari in mistici, soldati in testimoni.
Mentre il sole calava sui giardini vaticani, le nuove guardie iniziavano il primo turno. Non proteggono semplicemente un uomo in bianco: custodiscono un’idea di eternità. In un’epoca di muri crollati, le loro picche d’argento segnano ancora il confine tra caos e sacro.
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