Nell’affollata Aula Magna della Pontificia Università Urbaniana, dove i riflettori accesi sui temi del Concilium Sinense sembravano per un attimo offuscare le urgenze del presente, il cardinale Pietro Parolin ha tracciato una mappa delle speranze e delle tensioni che attraversano il mondo.
Parole misurate, come sempre, quelle del Segretario di Stato vaticano, ma cariche di un realismo che non elude le contraddizioni. A cominciare dal Medio Oriente, dove l’annuncio dell’accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele – mediato da Egitto e Stati Uniti – ha acceso un barlume di attesa. «Un passo in avanti», lo definisce Parolin, mentre i riflessi dorati della croce pettorale vibrano sotto i faretti. La soddisfazione della Santa Sede è palpabile, ma il porporato frena ogni trionfalismo: «Il diavolo sta nei dettagli. Servirà buona volontà per trasformare questa tregua in una pace duratura».
Non è sfuggito a nessuno il recente scontro verbale con l’Ambasciata d’Israele, che aveva contestato le dichiarazioni del cardinale rilasciate in occasione del secondo anniversario dell’attacco del 7 ottobre. Parolin, oggi, rilegge quell’intervista come un «invito alla pace» oltre le strumentalizzazioni. «Non esiste equivalenza morale tra le parti quando si parla di violenza – precisa –, ma condannare non basta. Serve costruire». Una posizione che Leone XIV ha già fatto propria, definendo «chiara» la linea della Santa Sede. Il Papa, del resto, non ha mai nascosto il suo sgomento per il «conteggio delle vittime» a Gaza, dove «ridurre esseri umani a numeri collaterali è inaccettabile».
Sul fronte asiatico, il cardinale rassicura: l’Accordo con Pechino sulle nomine episcopali – rinnovato nel 2023 nonostante le frizioni – resta «uno strumento positivo». «Abbiamo normalizzato situazioni un tempo ingovernabili», spiega, mentre un gruppo di studenti cinesi annuisce in prima fila. Le ombre? «Residui di clandestinità, frutto di sfiducia. Ma essere buoni cattolici e buoni cittadini non è incompatibile». Un messaggio che riecheggia gli insegnamenti di Francesco, ma che Parolin estende a ogni nazione: «La Chiesa non cerca privilegi, ma spazio per servire».
Quando il discorso sfiora il Venezuela, terra che conosce bene per averla servita come nunzio, il tono del porporato si fa più personale. Maria Corina Machado, oppositrice del regime di Maduro e nuova Nobel per la Pace, diventa simbolo di una svolta possibile: «Spero che questo riconoscimento aiuti il Paese a ritrovare la via della democrazia attraverso il dialogo». Parole che suonano come un monito a non arrendersi alla polarizzazione, mentre Caracas continua a bruciare di proteste.
Tra una stretta di mano ai docenti e un saluto in mandarino, Parolin incarna la diplomazia pontificia nella sua essenza: paziente, tenace, capace di navigare tra gli scogli senza perdere la rotta. La sfida – oggi come ieri – è trasformare gli accordi di carta in realtà tangibili. A Gaza come in Cina, il criterio resta lo stesso: «Costruire ponti, non muri. Anche quando il cemento sembra aver sostituito la fiducia».
Mentre il sole cala sull’Urbaniana, un ultimo flash coglie il cardinale in preghiera davanti alla statua di San Pietro. Forse sta chiedendo forza per i negoziati che verranno. O forse, semplicemente, ricorda a se stesso che ogni pace comincia da un singolo passo. Anche quando il deserto intorno sembra non finire mai.
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