In un momento in cui i venti di guerra continuano a soffiare con violenza sull’Europa orientale, le parole del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, risuonano come un monito e un appello alla coscienza globale.
Intervenuto questa mattina a margine di un evento celebrativo per i 40 anni dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù come Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, Parolin ha tracciato una via d’uscita dal conflitto ucraino che passa attraverso un impegno collettivo, capace di coinvolgere non solo le potenze tradizionali, ma anche attori spesso marginalizzati nel grande gioco diplomatico.
L’occasione dell’incontro, legata all’eccellenza sanitaria del Bambino Gesù, ha offerto al porporato lo spunto per riflettere sul legame tra azione umanitaria e costruzione della pace. “Questo ospedale non è solo un simbolo della sanità cattolica, ma un faro di speranza per i più vulnerabili”, ha dichiarato Parolin, ricordando l’impegno della struttura nell’accogliere minori provenienti da zone di conflitto, dalla Palestina all’Ucraina. Un’opera che, nelle sue parole, diventa “propedeutica alla pace”, dimostrando come la cura delle vittime e gli scambi di prigionieri possano aprire crepe nel muro dell’odio.
Ma è sulla crisi ucraina che il cardinale ha acceso i riflettori con toni decisi, mescolando realismo e urgenza. “Se sapessimo già la soluzione, l’avremmo già applicata”, ha ammesso con onestà, svelando la complessità di un negoziato che procede spesso in silenzio, lontano dai riflettori. La vera svolta, però, richiederebbe secondo lui un cambio di paradigma: “Gli Stati Uniti devono essere coinvolti, l’Europa deve abbandonare la timidezza per un ruolo di maggior protagonismo, e persino la Cina ha una parola da dire”. Un riferimento non casuale alla visita di Donald Trump in Estremo Oriente, interpretata come un tentativo di coinvolgere Pechino in una mediazione globale.
Non meno significativo il resoconto dell’incontro con il premier ungherese Viktor Orbán, avvenuto ieri nelle stanze vaticane. Definito da Parolin “un bel confronto”, il colloquio ha messo a nudo divergenze ma anche la volontà di “avvicinare posizioni”. Un segnale che, nonostante le tensioni tra l’Ungheria di Orbán e le istituzioni europee, la Santa Sede persegue una diplomazia del dialogo, pronta a tessere fili anche con chi sembra irriducibile.
Quello che emerge dalle parole del Segretario di Stato è una visione che affonda le radici nella storia della diplomazia vaticana, rinnovata però dalle sfide del presente. Parolin ha ricordato come, dal primo conflitto mondiale a oggi, la Santa Sede abbia fatto della cura delle vittime e della mediazione silenziosa il suo tratto distintivo. Un approccio che oggi si scontra con la multipolarità di un mondo frammentato, dove nessuna potenza può arrogarsi il diritto di dettare l’agenda della pace.
In conclusione, il cardinale ha lanciato un messaggio tanto semplice quanto radicale: “La pace non ha scadenze”. Una frase che suona come un invito a superare la logica delle alleanze temporanee, dei calcoli geopolitici, per abbracciare invece una responsabilità condivisa. In un’epoca di populismi e sovranismi, le parole di Parolin appaiono come un testamento morale: solo riconoscendo che il destino dell’Ucraina è legato a quello dell’intera famiglia umana si potrà spezzare il circolo vizioso della violenza.
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