La giovane ventitreenne armena, simbolo di una bellezza non convenzionale, da giorni è al centro di feroci critiche che – al netto di strategie di marketing intraprese dalla nota maison fiorentina – ci spingono a delle riflessioni.
La narrazione della “bellezza” nell’arte cambia, è in continuo divenire, anche la moda è alla ricerca di nuove e diverse prospettive per affrancarsi dagli stereotipi estetici tradizionali. Come diceva Picasso: «Ogni atto di creazione è prima di tutto un atto di distruzione». È proprio così? Per intraprendere una ricerca morfologica alternativa occorre abbandonare anzi rinnegare i vecchi standard estetici? E quando la moda e l’arte ciclicamente provano a uscire fuori dagli schemi del bello convenzionale come reagisce la società?
Arte e società vanno alla stessa velocità?
No, l’arte è libera e la creatività corre veloce, sperimenta, gioca e contraddice se stessa; la società non sempre riesce ad adattarsi alle piccole o grandi rivoluzioni che l’arte propone. Momenti come questi sono importanti, i momenti di rottura, di fuga dagli schemi sono fondamentali per l’evolversi della coscienza sociale perché costringono a riflettere e scardinano la barriera del senso comune. Il dibattito e le critiche sono sempre costruttive, chi dissente però non deve trascendere mai nella degenerazione espressiva. Purtroppo non è sempre così, soprattutto se si pensa al fenomeno dell’odio che imperversa sul web in questi giorni di cui è vittima Armine Harutyunyan.
Al di là della simpatia personale che mi suscita questa giovane donna (credo, anzi spero, tutt’altro che sprovveduta modella) e dei dubbi sul fatto che sia stata più o meno consapevolmente data in pasto ai c.d. “leoni da tastiera”, immolata per alcuni alla giusta e, per altri, meno nobile causa del marketing, quello che colpisce è che – come accaduto in passato – è l’arte che intercetta la diversità e impone o per lo meno suggerisce un cambiamento non solo estetico e stilistico ma sociale, culturale. Gucci non è nuova a questo tipo di scelte, pochi mesi fa aveva fatto parlare di sé per un’altra testimonial: Ellie Goldstein, prima modella con la sindrome di down. La politica di questa maison, che da poco si avvale di un diversity menager, è che la diversità è ricchezza e occorre abbattere barriere e pregiudizi proponendo una visione inclusiva anche nella moda come nella società.
Purtroppo c’è ancora molta strada da fare perché nei giorni scorsi offese e critiche più o meno perfide sui social network hanno colpito Armine divenuta in breve tempo l’ennesima vittima del c.d. body shaming. Molti non sanno che le condotte di cui si costituisce questo attuale fenomeno risultano astrattamente idonee ad integrare una pluralità di reati. Con questo neologismo – body (corpo) shaming (far vergognare) -, si indica la condotta di derisione, scherno, denigrazione, offesa, presa in giro e, più in generale, mortificazione di un soggetto per le sue caratteristiche fisiche. Tra le ipotesi più note vi è il fat shaming, ossia la derisione del soggetto in sovrappeso, cui fa da contraltare il thin shaming il cui destinatario è una persona considerata troppo magra. Il dileggio non risparmia nessuno: vittime sono sia gli uomini sia le donne a prescindere dall’età, professione o stato sociale, quello che rileva, nell’ottica dell’hater, è la non conformità del soggetto ad un determinato canone estetico.
L’impressionante diffusione del fenomeno sul web non è casuale: chi offende, spesso nascondendosi dietro l’identità altrui o di fantasia, pensa di essere immune da qualsiasi forma di responsabilità e non considera la potenzialità lesiva di commenti che raggiungono in un istante un numero indeterminato di persone che, a loro volta, potranno limitarsi a leggerli, compiacendosi o compiacendo l’hater mettendo il proprio like, o condividerli generando un aumento esponenziale del numero dei visualizzatori.
Quanto agli strumenti di tutela del body shaming i casi meno gravi possono essere fronteggiati non dando importanza al giudizio altrui o ricorrendo ai meccanismi, messi a disposizione dai principali social network, di interruzione dei canali di comunicazione con gli hater, attraverso lo strumento del ban (blocco).
Negli altri casi, invece, è opportuno rivolgersi all’autorità giudiziaria. Il web infatti non è una zona franca in cui a chiunque – solo perché munito di una sufficiente alfabetizzazione informatica – è consentito ledere l’onore, la reputazione o la dignità altrui, beneficiando di una sorta di immunità discendente da una sorta di extraterritorialità del mondo virtuale; tutto quello che viene inserito e postato sul web lascia una traccia, un’impronta virtuale che rimane impressa indelebilmente sui server ed è quindi identificabile.
La diffusione di un messaggio diffamatorio, mediante l’uso di un social, infatti, integra a tutti gli effetti il delitto di diffamazione aggravata.