Reddito di libertà, una misura che rischia di cadere nell’ipocrisia.
L’Inps ha da poco dato il via alle domande per poter accedere al reddito di libertà, manovra che prevede un importo mensile pro capite di massimo 400 euro per ogni donna, con figli minorenni a carico o non, che sia seguita da centri antiviolenza riconosciuti. È erogabile per dodici mesi e non rinnovabile al suo scadere. Il reddito di libertà punta a garantire e incentivare l’emancipazione femminile, assicurando con un importo non tassabile, e compatibile con le altre misure di assistenza governative, quali reddito di cittadinanza o assegno familiare, “l’autonomia abitativa, l’autonomia personale e il percorso scolastico e formativo dei figli minorenni”. Il reddito può essere richiesto entro il 31 dicembre 2021 al Comune di residenza o tramite il portale dell’Inps. L’idea di fondo di assicurare una fonte di reddito sicura alle donne vittime di violenza è non solo nobile, quanto universalmente riconosciuta come necessaria. Non si può infatti pensare all’emancipazione senza una stabilità economica di base, ma il reddito di libertà contiene in sé tante contraddizioni e limitazioni da non poter risultare uno strumento sufficiente così come previsto.
A chi è rivolto il reddito di libertà?
Il reddito di libertà è destinato alle donne vittime di violenza, con o senza figli minori, che si rivolgono a un centro antiviolenza riconosciuto dalla Regione e ai servizi sociali per percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Questo primo punto esclude già le donne che o non hanno avuto il coraggio di rivolgersi a dei centri specifici per chiedere aiuto, o tutte coloro che sono vittime di altre tipologie di violenza, come ad esempio quella psicologica, a volte difficile da dimostrare. Il contributo è destinato alle donne residenti nel territorio italiano che siano esse cittadine italiane o comunitarie oppure in possesso di un regolare permesso di soggiorno, o con lo status di rifugiate politiche o di protezione sussidiaria. Sono così escluse tutte le donne immigrate irregolari. Il cuore del problema si può trovare soprattutto nel fatto che il reddito di libertà viene erogato fino ad esaurimento fondi, per tanto chi prima arriva meglio alloggia, ma i fondi stanziati sono insufficienti perché su oltre 20.000 donne accolte nei Centri Antiviolenza ne potrebbero beneficiare solo 625.
L’autonomia della donna e del suo nucleo famigliare.
Il reddito di libertà ha un importo di massimo quattrocento euro, per tanto è possibile che ad alcune donne sia erogato un contributo con una cifra inferiore. Ha una validità di soli dodici mesi, e non è rinnovabile. In una situazione del mercato del lavoro critica, nel pieno di una crisi pandemica, in un paese che ancora non ha finito di fare i conti con la crisi del 2008, come può una donna, con eventuali figli minorenni a carico, trovare la stabilità economica con una quota mensile di massimo quattrocento euro? Con il rincaro delle bollette e il prezzo degli affitti, è quasi utopico che con una simile somma una donna riesca a trovare una sistemazione dignitosa per sé e per degli ipotetici figli a suo carico, garantendogli anche l’opportunità di rientrare nel mondo del lavoro, o di accumulare competenze per entrarci per la prima volta. E dopo questi dodici mesi, alla donna e alla sua famiglia chi ci pensa? Esiste un tempo limite per riprendersi dal trauma di una violenza e inserirsi perfettamente in un modo del lavoro instabile e già penalizzante nei confronti delle donne? La risposta come già sappiamo è no.
Il problema dei fondi.
Il Fondo per il reddito di libertà per le donne vittime di violenza, istituito dall’articolo 105-bis del decreto legge n.34/2020, convertito, con modificazioni dalla legge n77/2020, è stato incrementato con tre milioni di euro del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità. Tuttavia il piano triennale-antiviolenza istituzionale è scaduto nel 2020 e non è stato ancora rinnovato. I fondi sono bloccati e a risentirne sono i centri antiviolenza, che senza finanziamenti e coinvolgimento nelle politiche statuali vedono aumentare le difficoltà per aiutare le donne che si rivolgono a loro.
Possibili alternative al reddito di libertà.
Per garantire e favorire l’emancipazione femminile, quello che serve non è un reddito ad hoc per la condizione di donna vittima di violenza, ma una riforma dell’intero sistema del lavoro. Prevedere un reddito di autodeterminazione non condizionato, un salario minimo europeo e un welfare pensato sull’esigenze di tutti, sono gli strumenti necessari per ridare dignità al lavoro e di conseguenza all’emancipazione di tutti i cittadini indistintamente.
Aurora Mocci