Dagli allevamenti intensivi per moltiplicare ‘i pani e i pesci‘ sine die, al servizio delle grandi distribuzioni, fino ad arrivare per paradosso all’incapacità – ormai raggiunta e conclamata da dati percentuali di indagini socioantropologiche – di riconoscersi e realizzare il grande dono di generare la Vita. Un frigorifero pieno di polli acquistati in offerta, e salmone che non mangeremo probabilmente mai finendo intatti nella pattumiera, in una casa vuota senza bambini ma piena di vivaci mobili di Ikea; in cui in luogo delle voci gioiose di quei bimbi che giocano e pongono domande riferite a questo strano mondo con cui da poco hanno a che fare, a percorrere e marciare attraverso quegli ambienti solo l’audio monotono di un asettico telegiornale che elenca la lunga serie di tragedie avvenute, e i nuovi batteri con cui potremmo avere a che fare nel nostro triste futuro prossimo, e la cryptovaluta su cui forse finalmente varrebbe la pena investire.
La grande paura dell’uomo occidentale di generare la Vita – con le responsabilità e le paure appunto, anche legittime che la circostanza intrinsecamente porta con sé – appare venire esorcizzata dal produrre invece, vite su scala in questi grandi stabilimenti dove – in nome delle leggi di commercio – animali come salmoni, polli, o vacche vengono ‘moltiplicati’, in un esasperato mantra del creare vita, al servizio della domanda d’acquisto, dove però la Vita risulta essere espropriata di ogni libertà e del peso specifico spirituale – passo doveroso per arrivare finalmente a venderla – specie quella della ricerca individuale e nel proprio ‘piccolo’, della felicità.
“L’inverno del nostro scontento“, direbbe John Steinbeck citando il Riccardo III del sommo bardo inglese; come nel romanzo del 1961, in cui il protagonista nel tentativo esasperato di raggiungere una dimensione sociale di benessere idealizzato nella sua mente e propinato da sovrastrutture esterne, giunto al termine della corsa, sentiva persa per sempre la propria linea di Nord, la propria rettitudine, morale; e capiva così, che per accaparrarsi qualcosa che gli avevano descritto come fondamentale, si era perso tutto il resto; barattandolo per un ruolo posto in un angolo di presunto benessere, appunto. Amaro do ut des.
L’essere arrivati a percepire il figlio che potrebbe esserci come un sabotaggio al percorso sociale che dall’alto ci propinano, dimenticandoci così di quell’altro percorso che a tutti noi è data la splendida opportunità di disegnare – al di là dell’iter professionale legato alla carriera, c’è infatti quello propriamente esistenziale e riferito all’esperienza umana – l’essere arrivati a questa percezione appunto, testimonia in modo chiaro e distinto l’enorme confusione in cui siamo piombati, su stimoli suscitati da sovrastrutture che dal primo istante della nostra vita ci vengono contro e spingono l’individuo a affilare le proprie lame tuffandosi a capofitto in una diatriba di vita che di fatto esaurisce l’esistenza in quella dinamica.
Ecco: in merito alla parità di genere, l’Italia si classifica al quattordicesimo posto tra i Paesi dell’Unione Europea, con un punteggio di 4,4 punti sotto la media. Le ceo sono diminuite di un punto percentuale, attestandosi al 3%.
Notizie negative anche sul fronte della natalità: -1,3% di nascite nel 2021, rispetto all’anno precedente. Partendo da queste premesse, Freeda, leader in Italia tra le digital media companies, ha interrogato la sua community, composta prevalentemente da donne tra i 25 e i 34 anni, sul tema della conciliazione tra maternità e lavoro, per indagare le criticità legate al genere. L’indagine ha riguardato anche Regno Unito, Spagna e America Latina: gli altri Paesi dove opera la piattaforma per sensibilizzare e informare su diversity e inclusione.
Lo studio nasce da un’idea di Silvia Sciorilli Borrelli, corrispondente a Milano per il Financial Times, che in un passaggio del suo libro “L’età del cambiamento. Come ridiventare un Paese per giovani“, (Solferino), ha cercato di capire le ragioni per le quali l’Italia è uno dei Paesi dell’Ocse con il più basso tasso di natalità. Il campione coinvolto dall’indagine ritiene, al 77%, che la società contemporanea ponga le donne di fronte a una scelta tra carriera e famiglia. Inoltre, il 64% delle intervistate pensa che avere figli in età giovanile sia un limite per carriera e guadagno, il 63% che avere figli sia un ostacolo in generale per il proprio sviluppo professionale e il 59% ha paura di comunicare una gravidanza ai propri superiori. Si noti che al 42% delle intervistate durante un colloquio di lavoro, sono state chieste informazioni rispetto all’intenzione di avere dei figli.
“La politica del congedo parentale condiviso rappresenta una modalità efficace per superare lo stereotipo culturale che demanda alle donne la cura della famiglia e dei figli, a discapito dello sviluppo professionale– commenta Andrea Scotti Calderini, ceo e co-fondatore di Freeda – Ascoltando la nostra community, principalmente composta da giovani della Generazione Z e Millennial, si evince preoccupazione attorno al tema della maternità e alla possibilità che possa rappresentare per le donne un ‘gradino rotto’, ossia un momento di svantaggio competitivo rispetto ai colleghi. È necessario che imprese e politica lavorino insieme per promuovere un nuovo approccio a favore dell’inclusione e della parità di genere. A questo proposito, i nuovi media hanno una grande responsabilità per sensibilizzare e stimolare un cambio di passo“.
“Il sondaggio conferma quello che a livello aneddotico sappiamo tutti: in Italia fare figli e anche carriera non conviene, oppure, semplicemente, non è possibile”, ha dichiarato Silvia Sciorilli Borrelli, che ribadisce: “Occorrono riforme e misure a supporto delle famiglie, ma il cambiamento più urgente riguarda la percezione della genitorialità e deve essere prima di tutto culturale”.
Guardando al campione italiano, l’82% delle intervistate sostiene che il congedo parentale obbligatorio per il padre aiuti a conciliare le attività legate alla famiglia con il lavoro e contribuisca ad una ripartizione più equa delle responsabilità tra i genitori.
Alla domanda del sondaggio “Pensi di volere figli?”, il 69% delle intervistate ha risposto “Sì”, (percentuale che arriva al 76% per l’Italia). Tra le motivazioni comunicate a sostegno del “No”, per il 49% delle rispondenti ci sono proprio le potenziali conseguenze negative sulla carriera. Tra le mamme, il 21% ha dovuto smettere di allattare a causa del lavoro, mentre il 53% ha continuato fino a quando non ha deciso liberamente di smettere.
Francesco Bellacqua