Ad oltre quindici anni dall’entrata in vigore della legge 54/2006, chi allora sperava in un graduale sviluppo di sensibilità da parte di chi avrebbe dovuto applicarla, oggi non può che assistere agli effetti dell’accurato boicottaggio che Magistratura da un lato e Politica dall’altro hanno messo in atto, con differenti modalità, pur di danneggiare la “categoria scomoda” degli oltre centomila papà che affrontano ogni anno la separazione coniugale e, con essa, enormi disagi sociali, economici e umani.
La maggior parte di loro, pur avendo saputo (da chi ci è passato) che separarsi non è una passeggiata di salute – di corpo, spirito e portafoglio – all’inizio confida comunque nell’equità delle aule di tribunale, ma viene immediatamente travolta dall’obbligo di dovere osservare prassi talmente irragionevoli da provare sulla propria pelle la sensazione di essere discriminato per sesso. E così, il solo ingresso nella Prima Sezione Civile di qualunque tribunale trasforma i papà, come per beffarda magia, in “visitatori” dei figli. Anzi, se proprio vogliamo individuare l’esatto momento in questa mutazione sociale avviene, è allorquando la moglie/compagna comunica – verbalmente o tramite avvocato – la volontà di volersi separare.
E’ allora che comincia un calvario lungo anni, in cui tutto rimane sospeso e la ragionevolezza è un principio che fluttua per aria senza mai “cadere” in un provvedimento, scritto spesso con imperizia, fretta e totale noncuranza degli effetti che può produrre sulla vita di persone semplici, fino al giorno prima dedite alla cura dei figli da cui adesso vengono allontanati anche con false accuse di violenza. E quando finalmente arriva l’atteso provvedimento, chi lo ha emesso non si preoccupa nemmeno della sua concreta applicazione; semplicemente se ne lava le mani, e si comporta come una persona che ha appena tirato lo sciacquone: una volta “emesso” il provvedimento, non lo vedi più, e chissenefrega se verrà applicato oppure no.
Gli addetti ai lavori – gli stessi magistrati e un nutrito stuolo di avvocati pavidi e attenti a non chiedere ciò che esce fuori dagli schemi della “giurisprudenza prevalente del tribunale” – le chiamano “prassi” e “diritto di visita”, ma in realtà si tratta di un insieme di mezzi coercitivi adottati per ridurre le aspettative di due categorie di esseri umani – i papà e i figli – a due “mendicanti affettivi”. Per questo motivo, il modo di disciplinare la giustizia familiare da parte dei tribunali viene definito sempre più spesso come “disumano”, poiché l’applicazione di prassi a volte inspiegabili integra, oltre alla negligenza, anche una fattispecie di violazione dei diritti umani che recentemente è stata documentata e rappresentata alla Corte di Giustizia Europea da una serie di enti associativi del settore, con una apposita denuncia contro lo Stato Italiano.
La storia processuale che raccontiamo avviene all’interno di questo scenario quasi dantesco, dove al posto dei gironi ci sono lunghi corridoi del tribunale affollati da avvocati vocianti, e dove i compiti di cura dei padri vengono regolarmente limitati o annullati del tutto fin dal momento della c.d. Filiazione.
Nel 2016, il padre di L. si rivolge a un Tribunale per chiedere di potere riconoscere sua figlia, nata pochi mesi prima. La bambina non era stata riconosciuta poiché al padre biologico era stato accuratamente nascosto sia il luogo che il giorno della nascita della bambina da quella che si è immediatamente proclamata “mamma coraggio”. Costei, infatti, aveva comunicato al padre biologico, durante la sua gestazione, di voler crescere la bambina insieme ad un altra persona cui si era legata sentimentalmente, generando così la legittima opposizione del padre.
Quando L. è nata il padre, il “padre indegno” si rimbocca le maniche, si trasferisce nella città in cui vive la bambina, sottoponendosi a viaggi e spostamenti quotidiani per raggiungere la sua sede lavorativa, e si rende disponibile ad assumersi le sue responsabilità di genitore. Comincia a pagare volontariamente il mantenimento per la bambina già prima del riconoscimento, e paga persino un doppio affitto nella città in cui vive e in quella in cui lavora per garantire alla bambina una crescita serena.
La “madre coraggio” si oppone al riconoscimento, e comincia un lungo processo, costellato da ben due CTU, che danno esito uguale: il padre è figura idonea e perfettamente in grado di prendersi cura della figlia. E mentre la madre (coraggio) viene abbandonata da due legali e da tre consulenti tecnici di parte per via del suo comportamento ostativo, la bambina frequenta con gioia il padre, i nonni e gli zii paterni, secondo il calendario stabilito dai provvedimenti, come dimostrano le decine di ore videoregistrate, oltre che le consulenze e le osservazioni dei tecnici del Tribunale, cioè di terzi imparziali.
L’interruzione del rapporto – D’improvviso, arriva lo strappa materno. A marzo 2020, sfruttando l’emergenza Covid, la madre decide unilateralmente, e in spregio ai dettami dell’Autorità, di interrompere la frequentazione della bambina con il padre. Nel frattempo, il processo va avanti. La domanda di riconoscimento viene accolta, la madre viene sanzionata per il suo comportamento ostativo, perde l’affido della minore, che viene attribuito ai servizi sociali del comune di residenza, ma il risultato non cambia: le statuizioni restano su carta, nessuno riesce a farle rispettare. In parallelo, comincia il “can can mediatico”, animato soprattutto da alcune parlamentari e senatrici attive nella scorsa legislatura e non più rielette, che usano il loro ruolo istituzionale per aumentare il livello del conflitto, non facendosi scrupolo di sostenere una persona che aveva cominciato a violare tutte le statuizioni dell’Autorità – ponendosi consapevolmente fuori dallo stato di diritto – e riversando su un padre innocente false accuse di violenza, tutte rigorosamente smentite dall’Autorità Inquirente, sia in sede civile sia in sede penale.
La fine del processo – Intanto, anche il secondo grado del processo civile finisce. Siamo nel novembre 2021, ma il risultato non cambia: la Corte d’Appello riconosce il diritto della minore ad avere anche un padre, ma la madre riesce a eludere tutte le statuizioni, senza che nessuno intervenga per farle rispettare. Le disposizioni restano solo sulla carta, e la madre della bambina scompare con la piccola L., con la connivenza di reti e associazioni, sulle quali pure alla Procura competente è stato richiesto di indagare. La stessa viene rinviata a giudizio per sottrazione di minore e per violazione delle statuizioni dell’Autorità, mentre in ambito civile comincia il processo in Cassazione, incardinato dalla madre di L., che termina con lo stesso esito dei primi due gradi: L. ha anche un padre, del quale assume il cognome in aggiunta a quello materno, e resta affidata ai Servizi Sociali del comune di residenza, che hanno l’obbligo di provvedere, sentiti i genitori, alle decisioni di maggiore interesse per la bambina, che resta collocata dalla madre e deve vedere il padre per tre giorni a settimana, con un sistema integrato di pernotti.
Nonostante tutto ciò, e malgrado le decisioni favorevoli dei tribunali, tutto è rimasto esclusivamente sulla carta. È stato celebrato un processo, questo processo ha dato un esito, questo esito non viene rispettato: perché non vi è una Autorità che interviene? Vi è una parte processuale che pretende di sostituirsi al Giudicante, ovvero che, in presenza di statuizioni vincolanti ma non desiderate, omette di rispettarle, ponendosi al di fuori della legge. E perché i legali della signora F., in spregio alla loro funzione di custodi del diritto, non la invitano a rispettare quanto stabilito dall’Autorità?
I Servizi sociali – legittimi affidatari nella minore – non riescono a vedere la bambina dall’aprile 2021, cioè da quasi due anni. La minore, in età da obbligo scolastico, non frequenta la scuola. Con ciò, viene eluso da parte della madre anche l’obbligatorietà della frequenza scolastica. Una bambina a cui viene negato non solo il diritto di vedere il padre, ma anche di andare a scuola. Cos’altro deve accadere perché qualcuno intervenga e faccia rispettare la legge?
Esiste ancora lo stato di diritto in questo paese? E ancora: come è possibile che parlamentari della Repubblica – da ultimo l’On.le Ascari –, pagate con i soldi pubblici, dispongano interrogazioni parlamentari e intervengano sul caso in questione omettendo di dire che la parte che difendono viola da tre anni tutte le statuizioni dell’Autorità Giudiziaria, continuando ad accusare un uomo innocente che l’Autorità competente ha scagionato da tutte le accuse? L’Avvocato Giuseppe Conte, leader del Partito di cui l’Ascari fa parte, non ha nulla da dire in proposito?
E ancora: è pensabile che il sistema non riesca a garantire la certezza del diritto ai cittadini e alle parti più deboli della società, e cioè ai minori, perché taluni poteri indiretti si organizzano, fanno rete e hanno coperture politico-giornalistiche? Esistono forse degli intoccabili – o delle intoccabili, per grazia politica ricevuta? L’appartenenza a taluni comitati o gruppi di potere esime chi vi appartiene al rispetto della legge?
Tutte domande che rimangono senza risposta. Tuttavia, intorno alla vicenda della piccola L. è stato fatto in questi anni un vero e proprio “gioco al massacro” da parte di persone senza scrupoli, che non hanno esitato distorcere la verità processuale e a definire pubblicamente “padre indegno”, “padre abortivo” e “padre violento” una persona pulita, che adesso non ci sta più: dopo il deposito di alcune querele, la Procura della Repubblica competente ha aperto numerosi fascicoli, ipotizzando il reato di diffamazione e calunnia.