Non si tratta di una vedette che ha fatto parlare il mondo per scandali, gossip, rilanci della moda e dei costumi sociali. Bensì di chi è riuscita ad alzare sempre l’asticella del livello di elaborazione musicale che le stava accanto. In un ambiente dominato dagli uomini in cui le donne erano ben accette per seguire le band. Oppure, di tanto in tano, qualche voce. Quella di Joni Mitchell è epica. Un inesauribile campione di vocalità per chiunque voglia approcciarsi alla musica partendo dalle sonorità pure.
Both Sides, Now il brano del grande esordio avvenuto nel 1969 che l’ha resa immortale. Blue il suo disco perfetto. Clouds che l’ha portata nell’Empireo dei grandi. Joni Mitchell ha sempre teso a stare lontano dalla ribalta e col suo pianoforte o con la chitarra ha preferito dare il suo contributo sia fosse in buona solitudine che in ottima compagnia. E su questa linea sta preparando un nuovo album. Non l’ha fermata l’aneurisma al cervello da cui è stata colta nel 2015 e che rischiava di toglierla definitivamente dalle scene.
IL 7 novembre l’immensa autrice americana arriva a quota ottanta. Un argomento superfluo per la cantante, munita di chitarra e inconfondibile voce: talento inesauribile. Si divisa in concerti, tributi. Ci ha messo dentro anche un documentario nella nuova serie Legends della Bbc. Deve aver pensato: meglio provvedere subito personalmente prima che uno staff di improvvisati provveda a fare il classico documentario pieno di dichiarazioni semplificatorie e ad effetto. Voce che potrebbe essere presa a modello per la precisa modulazione delle note con lo strumento canoro. Capacità di muoversi con disinvoltura in contesti espressivi totalmente diversi sono i suoi tratti caratterizzanti di sempre.
La grande stagione del folk l’ha resa grande tra i grandi ma dopo un po’ e con gradualità era chiaro che quella formula per un’artista di razza doveva andarle stretta. Studia ed elabora uno stile che sempre più si fa blues, sempre più in arrangiamenti che guardano al nascente funk ma impossibili da definire come genere. Di qui le collaborazioni con Pat Metheny, Jaco Pastorius, Herbie Hancock, Michael Brecker e Charles Mingus.
Ma ama ancora definirsi pittrice. È lei stessa a curare la parte estetica delle copertine dei suoi lavori musicali con suoi dipinti e foto rielaborate. E non poteva mancare l’occasione di marketing musicale con l’uscita di Archives, Vol. 3: The Asylum Years (1972-1975) dove si possono ascoltare brani ancora inesplorati, prima che siano processati, rielaborati e proposti dall’intelligenza artificiale.
Il dato veramente sorprendente – anche se non dovrebbe sorprendere e invece sorprende proprio per l’abitudine della maggioranza dei suoi colleghi di replicare sé stessi o cimentarsi in forme sperimentate e vincenti – dell’arzilla ottantenne consiste nella voglia di cambiare ogni volta. La capacità di abbracciare battaglie impossibili, come quella contro Spotify iniziata da Neil Young per i postcast no vax ospitati all’interno di questo spazio. Lei, che da ragazzina non fece in tempo dalla poliomielite per merito del vaccino.
Ed è sempre da giovanissima la menzione delle sue grandi prove da artista: il famoso composto solo sui tasti neri del pianoforte, l’immersione nel mondo folk da protagonista assoluta e non come la semplice compagna del pur immenso David Crosby.
In sostanza, una leggenda vivente. Ma eviterà nuovamente i clamori passando dalla musica alla pittura come fosse tra una sigaretta e l’altra.