16 marzo 1978, Aldo Moro, docente di Diritto penale, ex membro dell’Assemblea costituente nel 1946 e deputato dal 1948. Come ogni mattina, lasciò il suo appartamento e salì in auto con gli uomini della scorta. Arrivò in via Mario Fani, una strada tranquilla di un quartiere residenziale della capitale. Lì il corteo si fermò: un commando composto da cinque uomini si affiancò alle auto e aprì il fuoco. Cinque militari, due carabinieri e tre poliziotti vennero uccisi.
Moro, unico sopravvissuto alla strage, fu sequestrato. Poche ore dopo, con rivendicazioni contemporanee a Roma, Milano e Torino, le Brigate Rosse comunicarono l’impensabile: il gruppo terroristico aveva rapito il presidente della Democrazia Cristiana. Moro era nelle mani delle Br.
Quel giovedì 16 marzo, non era una giornata qualunque. Alle 10 di mattina, era previsto il voto di fiducia per la nascita del quarto governo presieduto da Giulio Andreotti: per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, l’esecutivo sarebbe stato sostenuto da una maggioranza allargata anche al Partito comunista italiano. Il Pci di Enrico Berlinguer, dopo decenni di opposizione, si apprestava alla svolta: era il compimento del “compromesso storico”, la nascita di un governo “di unità nazionale”, lo sdoganamento dei comunisti. Un’alleanza, quella tra Pci e Dc, la cui regia fu condotta pazientemente, per anni proprio da Aldo Moro. Che quella mattina si stava recando in Parlamento per il voto.
A due giorni di distanza dal rapimento, sabato 18 marzo, le Brigate Rosse annunciarono il loro “comunicato numero uno” da una cabina telefonica del centro di Roma. “Aldo Moro recitava il testo è detenuto in una prigione del popolo e sarà giudicato da un tribunale del popolo”. Cominciava un dramma che durò 55 giorni, punteggiato di silenzi e comunicati delle Br e segnato dal drammatico dibattito interno alla Dc: accettare o rifiutare una trattativa con i terroristi.
Aldo Moro, nei giorni della prigionia, scrisse molte lettere: al governo, alla sua famiglia, perfino al Papa. Supplicava lo stato di aprirsi al dialogo con i brigatisti, anche a costo di accettarne le rivendicazioni (per la liberazione chiedevano il rilascio di alcuni terroristi detenuti). Il 19 aprile scrisse al segretario della Dc Benigno Zaccagnini.
Al governo e nella Dc, in effetti, passa la linea dura. Il partito, Andreotti e il ministro dell’Interno Francesco Cossiga in testa, rifiutano ogni compromesso con le Br. Alcuni decenni dopo la vedova Eleonora accuserà: “Coloro che erano ai differenti posti di comando del governo lo volevano eliminare”. L’ultimo comunicato dei terroristi, il numero nove, arrivò il 5 maggio. Annunciava la conclusione del processo popolare a carico dello statista: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza”. Aldo Moro scrisse alla moglie: “Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”. Quattro giorni dopo il suo corpo fu ritrovato a via Caetani. Una strada scelta con cura: situata ad identica distanza dalle sedi del Pci e della Dc.
L’immagine del corpo dell’ex presidente del Consiglio italiano Aldo Moro esanime, accartocciato su sé stesso nel bagagliaio di una Renault 4 ritrovata in via Caetani, a Roma, ha cambiato la storia del nostro paese. Quella fotografia, il 9 maggio 1978, fece il giro del mondo. Ancora oggi, rappresenta il simbolo degli “anni di piombo”: l’apogeo di una guerra civile strisciante che ha segnato l’Italia lungo gli anni Settanta e Ottanta. Fatta di centinaia di attentati, stragi e morti.
Anna Rita Santoro