Roma, 7 agosto 1990. La città è deserta, silenziosa, stordita dalla calura. In via Carlo Poma 2, nell’elegante rione Prati, quartiere borghese e tranquillo, una ragazza lavora al computer da sola, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù. Ė Simonetta Cesaroni, la 20enne romana il cui corpo senza vita sarà trovato riverso a terra poco prima di mezzanotte in quello che ben presto, nell’immaginario collettivo, diventerà il palazzo dei misteri. La scena che si presenta davanti agli occhi della sorella Paola, del datore di lavoro Salvatore Volponi, del portiere dello stabile Pietrino Vanacore e di sua moglie Giuseppa De Luca è raccapricciante: la ragazza giace trafitta da 29 coltellate, supina, il capo riverso, braccia e gambe divaricate vestita del solo reggiseno. Indossa calzini bianchi e ha un corpetto appoggiato di traverso sul ventre. Grumi di sangue si sono raccolti sotto il corpo, vicino alla testa e ai rigogliosi capelli neri. Il pavimento reca impronte rosacee semicircolari, quasi che qualcuno abbia provveduto a una parziale detersione. L’ambiente circostante è in ordine: le scarpe da tennis della giovane sono in un angolo, ben allineate, nella sua borsa, oltre agli effetti personali, viene trovato un panino avvolto nella carta stagnola: il ritratto di una ragazza semplice, senza grilli per la testa, fidanzata da qualche tempo con Raniero Brusco con cui, pochi giorni prima, ha avuto una discussione. Arrivata in ufficio prima delle 16, fa una telefonata di lavoro a una collega. In seguito, intorno alle 18:30, avrebbe dovuto chiamare Volponi per relazionare sulle operazioni contabili a cui si stava dedicando ma quella chiamata non arrivò mai. Simonetta, in quel lasso di tempo viene uccisa. Un delitto che ad Antonio Del Greco, capo della sezione Omicidi della questura di Roma, appare subito con un movente a sfondo sessuale. Su un seno di Simonetta è presente una lesione attribuibile a un morso ed è su tale elemento che si basa gran parte del processo a carico dell’allora fidanzato, giudicato colpevole in primo grado, condannato a 24 anni di reclusione nel 2011 e assolto il 26 febbraio 2014 dalla Corte Suprema di Cassazione. A trent’anni di distanza, dopo il calvario di indagini contraddittorie, inadeguate, contraddistinte da depistaggi, trascuratezze, analisi incomplete, è l’avvocato della famiglia Federica Mondani a invocare la riapertura del caso, a patto che “arrivi un segnale dalla Procura”. Secondo il legale “l’omicidio di via Poma rappresenta una sconfitta per il sistema giudiziario italiano e per lo Stato”. Alle presunte omissioni, ora si potrebbe riparare grazie a nuovi elementi che sarebbero emersi, relativi a due libri che trattano il caso: “Il delitto di via Poma”, scritto dal giornalista di Repubblica Massimo Lugli in collaborazione con Antonio Del Greco, l’altro di Igor Patruno “Il delitto di via Poma trent’anni dopo”. Testi che mettono in discussione la conduzione delle indagini e forniscono nuove piste da seguire, affinché si arrivi a una verità che la famiglia attende da troppo tempo. Da non sottovalutare, a difesa degli investigatori dell’epoca, gli scarsi strumenti scientifici a disposizione come, ad esempio, l’esame del Dna basato unicamente sul gruppo sanguigno arrivato nel 2008. Molte tracce biologiche furono sottovalutate, come affermato anche dall’ex comandante dei Ris Luciano Garofano. Oggi è possibile poter riesaminare molti elementi grazie ai sofisticati mezzi in possesso degli specialisti forensi. Sull’esame dell’inquietante “morso”, si potrebbe fare chiarezza con l’intervento di un Odontologo forense, specialista in grado di intervenire su elementi come lesioni da morso e arcata dentale agendo con una precisione millimetrica, figura che all’epoca del processo Brusco non era inserita nell’albo degli esperti del tribunale. E ancora, cosa dire dello strano suicidio di Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile che fu il primo indiziato, poi scagionato e che si uccide poco prima di testimoniare nel processo Brusco? Secondo esperti criminologi, l’umile portiere di via Poma avrebbe scelto un modo molto scenografico per mettere fine alla sua vita: il veleno, la corda legata al piede e fissata a un albero prima di buttarsi in pochi centimetri di mare, una enfasi inspiegabile volta a voler dimostrare che si tratti davvero di un suicidio. Inspiegabile ma non troppo, per quello che fu il custode di un misterioso stabile in cui, sei anni prima di Simonetta, perse la vita soffocata con un cuscino Renata Moscatelli, una ricca signora sessantottenne e, rispettivamente nel 2009 e nel 2019 si suicidarono due legali, Massimo Buffoni e Domenico Gentile, che uccise anche sua moglie.