AGI – “La presenza di potenze imperialiste e le politiche sbagliate che mettono in atto costituiscono la causa principale dei colpi di stato cui stiamo assistendo in Africa”. Parola del nuovo ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, fedelissimo del presidente Recep Tayyip Erdogan che ha iniziato la propria ascesa alla guida del Tika, agenzia statale che si occupa di progetti di cooperazione in Africa, a commento dei recenti golpe in Niger e Gabon.
Quei progetti costituiscono in realtà la testa di ponte con cui Ankara negli ultimi anni ha allacciato rapporti nel continente africano accrescendo la propria influenza. La tempistica dei commenti non è casuale: mentre i Paesi europei escono gradualmente di scena da contesti in cui erano stati dominanti per decenni, l’influenza della Turchia di Erdogan è destinata a crescere perché, come spiega lo stesso Fidan, i Paesi africani “apprezzano che la Turchia non abbia un’agenda imperialista”.
I colpi di stato in Niger e Gabon e la notizia dell’attentato in cui hanno perso la vita più di 60 persone in Mali sono gli ultimi episodi di una serie iniziata dal 2020 con tentativi di rovesciare governi in Mali, Ciad, Sudan, Guinea e Burkina Faso. Con l’eccezione del Sudan, si tratta di un’area storicamente sotto la “tutela” della Francia, dove però negli ultimi anni si è fatta sempre più evidente la presenza dei mercenari russi della Wagner.
Le crisi politiche e l’incertezza nell’area rappresentano l’occasione anche per Ankara di porre un ulteriore tassello a quello che nel 1998, 5 anni prima dell’ascesa di Erdogan, venne inaugurato con il nome di Africa Action Plan. A partire da quando era premier nel 2005, il presidente turco ha utilizzato il risentimento di quei Paesi nei confronti delle ex potenze coloniali a proprio vantaggio, definendo la Turchia un Paese ‘Afro-Eurasiatico’. Si tratta di una politica coerente con quella che ha portato a un’espansione dell’influenza in Libia, Sudan, Somalia e altri Paesi dell’Africa subsahariana.
Negli anni scorsi, anche in Libia Parigi e Ankara si sono schierate su fronti opposti: a fine 2020, il presidente francese ha apertamente accusato Erdogan di agire dietro le quinte per scalzare la Francia in Africa Occidentale “sfruttando un risentimento post coloniale”. Il riferimento era ai programmi turchi Africa Opening del 2008 e Africa Partnership Plan del 2013, che disegnavano un piano di intervento basato da un lato su un piano di investimenti presentato spesso come di aiuto alla popolazione, dall’altro sulla collaborazione militare.
A partire dal 2003, anno in cui Erdogan divenne premier, il numero delle ambasciate turche in Africa e’ salito da 12 a 43. La compagnia di bandiera Turkish Airlines, da sempre uno strumento di soft power, vola in 61 Paesi africani, mentre la gia’ citata agenzia per la cooperazione Tikka conta ben 22 uffici sul territorio. Anche la fondazione turca Maarif conta 175 scuole in 26 Paesi africani; inoltre, sono state concesse borse di studio a 6 mila studenti africani che in Turchia studiano per divenire dirigenti dei rispettivi Paesi di provenienza, destinati a lavorare con un occhio di riguardo verso la Turchia.
In Mali una grande moschea è stata costruita per l’Alto Consiglio Islamico Maliano e una seconda è stata restaurata nella città natale dell’ex presidente Ibrahim Boubacar Keita. Ad Agadez, in Niger, il governo turco si è fatto carico del restauro della Grande Moschea e del palazzo del Sultano Air, erede di una famiglia il cui capostipite era nato a Istanbul nel 1400, secondo una leggenda pur sempre utile a fini retorici. Ospedali sono stati aperti e scuole ristrutturate a Bamako e Niamey tra il 2017 e il 2019, oltre a numerose cliniche mobili donate e poi mandate negli angoli più poveri dei Paesi.
Ankara ha costruito infrastrutture per la distribuzione di acqua ed elettricità sia in Mali che in Niger, spianando cosi’ la strada all’ingresso di prodotti turchi, alla conclusione di accordi commerciali e appalti in ambito edilizio, minerario ed energetico. L’interscambio turco nel Sahel è ancora lontano rispetto a Francia e Cina, ma in crescita da 10 anni.
L’interscambio con il Mali è passato dai 5 milioni di dollari del 2003 ai 57 del 2019. La Turchia ha al momento basi militari in Libia e Somalia e addestra gli eserciti di diversi Paesi, tra cui proprio il Mali. Nonostante questo dato Ankara nel 2021 ha venduto armi e droni all’Africa per meno di 300 milioni di dollari, pari ad appena lo 0.5% dell’import di armi in Africa, settore in cui la Francia continua a dominare. Il crescente sentimento antifrancese e i cambiamenti in atto, con l’ascesa di nuovi governi contrari all’influenza di Parigi, potrebbero pero’ presto far pendere l’ago della bilancia a favore di Erdogan.
La presenza militare turca in Africa
È cresciuta esponenzialmente nell’era Erdogan, durante la quale sono stati aperti 37 uffici militari in tutto il continente. Grazie ai droni turchi, gli ormai celebri TB2 Bayraktar, ora Erdogan si appresta a compiere un passo ulteriore alla conquista del continente africano e sfidare Mosca, che tra il 2015 e il 2019 ha fornito il 49% del totale delle armi importate in Africa (dati Stockholm International Peace Research Institute).
“Ovunque vada in Africa, mi chiedono informazioni sui nostri droni“, ha detto Erdogan dopo un tour che lo ha portato in Angola, Nigeria e Togo lo scorso anno. Il TB2 Bayraktar, salito alle luci della ribalta in Libia, ha avuto anche un ruolo negli interventi turchi in Siria, nel conflitto in Nagorno-Karabakh e in Ucraina ed è entrato nella lista della spesa di Tunisia e Marocco ed Etiopia, Paese con cui l’interscambio commerciale e’ passato da 235 mila dollari a 94,6 milioni fra 2020 e 2021.
I cambiamenti in corso nella regione impongono ora ad Ankara di scegliere se andare al muro contro muro con la Francia o agire in Africa Occidentale in coordinamento con la Nato. Il governo turco e’ inoltre al momento impegnato a tenere i fili di una diplomazia multilaterale e con una pesante crisi economica interna al Paese; ma Ankara non smentisce l’obiettivo di triplicare l’interscambio commerciale con l’Africa e portarlo a 75 miliardi di dollari all’anno
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