Nella tarda mattinata di lunedì 18 giugno, si è svolto a Roma, nella Sala dei Mosaici dell’Ufficio in Italia del Parlamento Europeo di via IV Novembre, il primo degli incontri nel nostro Paese (il conclusivo è di ieri a Milano, in Corso Magenta, dalle 16.30 in poi) con l’ospite Yamile Saleh. Presente all’evento con la sua testimonianza, anche l’attivista italiana Betty Grossi, che è stata arrestata nel 2015 in Venezuela e rilasciata nel dicembre 2017; a moderare, Maria Claudia Lopez coordinatrice in rappresentanza di VenEuropa, associazione democratica e umanitaria – alla guida della presidente Patricia Betancourt – che fa da ponte fra il Venezuela e il Parlamento Europeo. Gli appuntamenti sono stati organizzati dagli Uffici del Parlamento Europeo in Italia nell’occasione del trentesimo anniversario del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Al centro degli interventi sono, e sono stati, diritti e libertà.
Scheda breve di anagrafica tecnica. Sicuramente più conosciuto, poche parole a favore del Premio Sakharov: rappresenta il massimo riconoscimento che l’Unione Europea elargisce a sacrifici e impegni compiuti a difesa dei diritti dell’uomo. È attribuito a singoli, gruppi e organizzazioni, i quali grazie al singolare ed eccezionale apporto hanno sostenuto e promosso la causa della libertà di pensiero. L’Unione Europea supporta i vincitori proprio con il Premio e la rete associata, rafforzandone e legittimandone le lotte a difesa delle rispettive cause. Il Premio Sakharov fu assegnato per la prima volta nel 1988 a Nelson Mandela e ad Anatolij Marchenko.
Forse occorrerà più spazio e un’anagrafica civile e morale per la donna ospite dell’incontro che aveva in un primo momento pensato di non intraprendere questo viaggio, come ha poi confidato ai presenti. Chi è Yamile Saleh? Lei è la madre del giovane prigioniero politico, uno dei leader di primo piano dell’opposizione democratica venezuelana, Lorent Saleh, nell’elenco del Foro Penal Venezolano insieme a Leopoldo López, Antonio Ledezma, Daniel Ceballos, Yon Goicoechea, Alfredo Ramos e Andrea González. I rappresentanti dell’opposizione al presidente Nicolàs Maduro in Venezuela – prigionieri politici e Assemblea nazionale (Julio Borges) – che hanno ricevuto a Strasburgo il Premio Sakharov per la libertà di pensiero 2017. Fermiamoci ora. Alla donna e al suo particolare intervento torneremo in un secondo momento, dopo i ringraziamenti, i saluti e l’accenno al perché dell’iniziativa – fissata in una fase storica difficile per il Venezuela ma che può rappresentare il simbolo univoco, per chiunque, della resistenza ad un regime causa di morte per le strade di giovani ventenni, di feriti, di prigionieri, di martiri ed eroi – a cura di Maria Claudia Lopez.
La testimonianza in prima persona dell’attivista Betty Grossi e dei suoi due anni trascorsi nelle prigioni venezuelane sono l’inizio di un tormento dichiarato con l’imputazione a suo carico legata al terrorismo e con l’arresto dal 17 agosto 2015, a cui seguirono interrogatori basati su minacce nonostante l’evidente mancanza di prove e la sicurezza d’innocenza. Mi hanno tenuta in condizione di detenzione senza soluzione d’igiene personale per sei giorni, ha rammentato nell’aneddoto sul ciclo mestruale. Ed è stata la narrazione confessata, di uno Stato senza più mediazioni tra la sua dittatura e l’opposizione. Ed è stata la ricerca, attraverso lo sguardo di conferma, nel consenso annuito delle due donne vicine, di pari passo con la conoscenza diretta di prove costruite a discapito di vittime di turno ad opera dei cosiddetti compatrioti collaboranti, infiltrati del governo in associazioni, movimenti, università e gruppi dell’opposizione sino a quella indiretta di torture bianche, ovvero vessazioni psicologiche, negazioni basilari dalle necessità fisiologiche alle sottrazioni di cibo e proibizioni di assistenza medica o del comunicare, oltre ad essere stata spettatrice involontaria di torture fisiche quali quelle perpetrate ad un giovane legato alle tubature che passavano rasenti la pavimentazione della cella. Ascoltando tutto ciò nasce un mesto quesito: Che ne è del diritto alla democrazia?
Chi è Yamile Saleh? Non è un refuso, è una nuova domanda per un’altra risposta. Lei è la donna che è stata in carcere un giorno e una notte solo per essere la madre di Lorent Saleh, e che ha aspettato il suo turno per parlare, per far andare in onda un video a cui tiene tanto perché racconta di suo figlio, dell’attivismo del movimento studentesco contro la dittatura, degli arresti immotivati, delle visite di familiari negate, delle liberazioni, dell’ammutinamento dei prigionieri politici a maggio scorso represso con la forza, dell’udienza preliminare giunta al numero cinquanta della settimana passata, della gioventù rubata, delle torture de El Helicoide e de La Tumba di Caracas, della crisi che vive il suo Paese e degli stenti e delle privazioni basilari di diritti fondamentali al popolo, del valore enorme che ha la democrazia e la libertà e di quanto sia importante salvaguardarle entrambe. Ed è stato il ricordo che ha portato con sé qualche lacrima. Ed è stata Yamile, in una postura equamente composta a straziare le mani in un continuo raccoglierle l’una nell’altra, che ha chiesto una collaborazione per la liberazione di Lorent dalla prigionia delle carceri venezuelane e non ha dimenticato di chiedere la scarcerazione anche per i suoi compagni; che ha chiesto il rispetto della dignità, e che rivolgendosi a sé stessa e ai presenti, a mo’ di preghiera e riflessione, ha auspicato una speranza e invocato un appoggio per riavere accanto il figlio Come posso aiutarlo io che non sono un avvocato…sono una madre, una madre come tante. L’appello di Yamile Saleh che è seguito, rivolto anche agli Italiani, interrotto dall’emozione e non dal pianto, toccandosi con la mano la parte del petto e posto del cuore, è stato liberatorio di ansia e tensione, non nascondendo il desiderio al rientro in Venezuela, sue testuali parole conclusive del discorso, di trovare mio figlio ad attendermi. Nulla si può davanti alla richiesta di una madre che ingoia lacrime, sofferenza e dolore per riavere il figlio e ridargli una vita, quella vita che gli è stata sequestrata da anni con reclusione e angherie. Nulla si può se non cedere.
L’osservazione è scontata e un’altra è da fare mentre si osservano le ospiti dirigersi a rilasciare interviste ad altri media accorsi. A settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti è a rischio il nuovo universalismo del XXI secolo? In materia di diritti, senza andare troppo indietro nel tempo, rammentando risoluzioni e accadimenti dell’ultimo decennio, i risultati raggiunti non sono irreversibili nemmeno nelle società civili evolute e democratiche. E’ risaputo al pubblico globale, senza entrare nel merito di giusnaturalismo e giuspositivismo, che con l’espressione diritti umani si intende qualsiasi diritto fondamentale e/o le libertà di cui tutti gli esseri umani hanno diritto e sui quali i governi, a prescindere dalla loro natura, non dovrebbero interporsi, inclusi il diritto alla vita e alla libertà, così come le libertà di pensiero e di espressione, e soprattutto l’uguaglianza di fronte alla legge. Molti autori, filosofi e studiosi hanno scritto nei secoli sui diritti umani. E’ questo un tema dibattuto e sentito dagli intellettuali di ogni epoca storica.
I diritti spesso sono uguali per tutti solo sulla carta. Non si può sopportare senza reagire la violazione di diritti che si perpetua ai danni di qualsiasi persona o individuo, a noi prossimo o fuori mano, conosciuto o anonimo che sia. Questo status cedente sarebbe lo stoppino acceso che innescherebbe un congegno, orientando una struttura subdola e statica di assuefazione, la quale, a sua volta e ineluttabilmente, potrebbe diventare la risposta silenziosa nel caso in cui, prima o poi, ci venga deputato il ruolo di vittime.
Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono i tre cardini principali, perni fondanti di quella filosofia non solo umanitaria che mette al primo posto la persona, l’essere umano, l’essere vita. Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono la chiave universale per aprirsi al concetto di comunità globale, e l’uno garantisce e perpetua l’esistenza dell’altro. Oggi, la nostra società è l’espressione del cambiamento il quale coinvolge tutti in nuove sfide che a loro volta, paradossalmente, ascrivono anche geni insani, bassi pregiudizi e discutibili teorie già storia trascorsa dell’evoluzione democratica di molti popoli e nazioni. A tal riguardo torna utile aggiungere i concetti principe espressi dal filosofo Norberto Bobbio sui diritti fondamentali dell’uomo, in cui egli sostiene che essi non sono naturali e assoluti, dati una volta per sempre, ma sono storici, nascono da particolari bisogni, in un determinato periodo storico (ovvero relatività storica), quando qualcuno lotta per affermarli e quando vengono tradotti in norme e poi difesi, e sono diversi – nella norma e di fatto – nei vari paesi (la cosiddetta relatività geografico-culturale).(da N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. 9).
Continuiamo a viverci il presente e non perdiamo di vista l’oggetto di nostro interesse. Durante il 2017 conflitti, politiche di austerità e calamità naturali hanno creato condizioni di maggiore indigenza e sfiducia per milioni di persone. Il caso specifico del Venezuela fa parte dei risultati prodotti dalla retorica intrisa d’odio che ha guidato le politiche di un leader mondiale come Maduro, ribattezzato il dopo-Chávez, e a documentarlo non sono solo le esperienze e le testimonianze di Betty Grossi, Yamile e Lorent Saleh, è anche, per esempio, il lavoro di ricerca raccolto nel Rapporto Annuale 2017 di Amnesty International, edito in Italia da Infinito edizione, sostenendo che Il Venezuela ha affrontato una delle peggiori crisi dei diritti umani nella sua storia recente, alimentata da un’escalation di violenza spesso sostenuta dal governo. Sono aumentate le proteste a causa di un’impennata dell’inflazione e di una crisi umanitaria dovuta alla difficoltà di reperire generi alimentari, farmaci e altro materiale sanitario. Invece di affrontare la crisi alimentare e sanitaria, le autorità hanno messo in atto una premeditata politica di violenta repressione contro qualsiasi forma di dissenso. Le forze di sicurezza hanno fatto ricorso all’uso eccessivo e illegale della forza contro i manifestanti, anche lanciando gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, provocando la morte di almeno 120 persone. Altre migliaia sono state arbitrariamente detenute e sono state segnalati numerosi episodi di tortura e altri maltrattamenti. Il sistema giudiziario è stato utilizzato per imbavagliare il dissenso, anche tramite il ricorso ai tribunali militare per perseguire i civili e per prendere di mira e vessare i difensori dei diritti umani (fonte sito web Amnesty International). Di fronte a tale situazione – e a quelle nuove che emergono incontrastate e viscide – e in una giornata evocativa come quella odierna che è la giornata mondiale del rifugiato (nel 2017 oltre 68 milioni di persone sono state costrette a fuggire dai loro paesi e ad abbandonarli per mettersi in salvo da guerre e persecuzioni), che ne è del godimento dei diritti imprescindibili alla persona? Nell’amara domanda e in questi scritti l’intenzione di essere un altro suggerimento fra i tanti che giungono dalla nostra società ai governi e a i leader attuali per ripristinare, ove mancasse, e proteggere, ove esiste, un argomento principale nella vita delle persone qual è quello dei diritti dell’uomo, per dare forza e far intendere una volta per tutte che la libertà di un individuo è sacra, è tempio di dignità, scanno dell’umanità e dei suoi eletti valori. Non possono essere soppressi né alienati.
Proprio per questo motivo e nel fare tesoro di esperienze passate, onde evitare il danno immane, e uscire dalla spirale di corsi e ricorsi storici negativi, con prontezza d’animo individuale e protesta di coscienza collettiva, vanno estirpate le concause proiettate al depauperamento della cittadinanza universale, al contempo vanno dissentite le cagioni esalate alla smentita di conquiste e di accordi spinti alla realizzazione e al riconoscimento di diritti umani, sin dal 1948, con l’omonima Dichiarazione universale – documento sui diritti individuali, firmato a Parigi in quell’anno il 10 dicembre, la cui stesura fu favorita dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri. Abbisogna eludere il pensiero di pochi, i loro pretesti e la bieca intenzione di volontà malata a ritrattare la lunga marcia, la quale condotta passo passo sull’arduo percorso – a fronte di difficoltà dovute al superamento di contingenze storiche, socio-economiche e politiche e al costo di innumerevoli vite umane – ha tracciato e dipinto l’orizzonte ambito e condiviso da tutti i popoli del mondo. Necessita mantenere al centro dell’attenzione il problema dei diritti umani a livello locale e internazionale: in Italia, in Europa e nel mondo intero. Il reclamo d’obbligo è per il ripristino di quei valori fondanti della Dichiarazione, originati da storiche tradizioni, vasta capacità politico-organizzativa, smisurata tenacia e abilità diplomatica, votati e ratificati per affermare una programmazione di ordine mondiale multipolare in eventuali scenari incerti – combinazioni di terrorismo internazionale, conflitti etnici, civili e religiosi – tesa ad assecondare incontro, e non scontro, tra culture. Potrebbe venirci in soccorso lo stabilire l’idea di inculcare un’educazione civica attenta e partecipata, che dirami nel sociale e nelle istituzioni scolastiche (sforo volutamente nel citare l’esempio meritevole da copiare per attività scolastica giornaliera e un appunto di riguardo per la scelta e le opzioni, per i contesti e le figure proposti, nella prima prova dell’esame di maturità per i 500mila studenti italiani, gli ultimi del ‘900, che va da Bassani a Moro passando per la Costituzione e Alda Merini e Alcide De Gasperi, Giovanni Fattori, Munch, Hopper, Petrarca, Pirandello, Quasimodo, Dickinson) e di formazione professionale, che conduca i giovani e meno giovani per mano, in un sentiero così tortuoso, il quale presenta possibilità di perder pezzi delle passate e recenti conquiste, spesso sporche di sangue innocente, a favore d tutela della persona e di deragliare in sentimenti di odio e crudeltà verso il prossimo sulla base di istigate e montate differenze. Il monitoraggio culturale e quello operativo sul campo di organizzazioni e enti preposti, fortunatamente, ha permesso da tempo di individuare il fenomeno, seguirlo e renderlo noto: ai Diritti vecchi, quali diritti civili e politici per conseguire libertà, ora si uniscono i Diritti nuovi, i cosiddetti diritti di dignità, quale il diritto alla vita e quello alla salute, alla istruzione, alla informazione, al benessere, alla felicità e così via; Diritti che non scompariranno e non moriranno mai finché ci sarà lo spirito e le gesta di persone – come Yamile e Lorent Saleh e Betty Grossi per esempio – pronte a subire torture e persecuzioni, a dare la vita in cambio se necessario piuttosto che soccombere alla tirannide, all’omertà e all’ingiustizia.
Maria Anna Chimenti