Cinque chilometri. È lo spazio che passa da Montecitorio al Circolo Canottieri Aniene. Qui, nella sala congressi del club trasteverino Luciano Fontana, il direttore del Corriere della Sera, si prepara a presentare il suo ultimo libro “Un paese senza leader”, mentre Giuseppe Conte, cinquemila metri più in là, da buon neo premier in pectore, è ancora alle prese con le varie forze politiche, al primo giro di consultazioni alla Camera.
Copertina o numero delle pagine quindi? Nessuna delle due. Il vero metro di misura del libro rimane la distanza: quella che rende la nostra Italia irriconoscibile di fronte alle memorie della Seconda Repubblica, e quella che impedisce oggi, ogni proiezione politica per il futuro. Proprio perché vedere lontano sembra un lusso che in pochi sono in grado di concedersi, “Un paese senza leader” restringe il campo, passando sotto la lente d’ingrandimento ciascun leader, per un’analisi politica a km 0.
«Non sappiamo se abbiamo trovato un nuovo leader» afferma all’inizio della presentazione Gianni Letta, alle domande dalla giornalista di La7 Myrta Merlino «ma qualche profeta c’è: Luciano Fontana è uno di questi». Molte delle cose scritte nel libro, finito di stampare nel febbraio del 2018 – secondo l’ex sottosegretario del Consiglio dei Ministri – si stanno materializzando sotto i nostri occhi, prima fra tutte e di rimando all’editoriale di Fontana del 5 marzo, che “è finito un mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi anni e ne è iniziato un altro in cui le divisioni tra destra e sinistra quasi non esistono più.”
L’assenza di una classe dirigente all’altezza della situazione e con una precisa visione politica da trasmettere ai cittadini, appaiono come le cause primarie della consumazione repentina delle leadership. Nel libro Fontana lo dimostra, in maniera induttiva però. Dopo “l’orlo del burrone” descritto nel capitolo iniziale in cui si consuma un piccolo processo nel tentativo di “ragionare sulle radici del male oscuro”, i capitoli, dal secondo in poi, cambiano registro. Berlusconi, Renzi, la guerra fratricida interna alla sinistra e poi Salvini, fino a Grillo, Di Maio e gli altri del M5s: il direttore del Corriere della Sera, come ogni cantastorie che si rispetti, attinge a piene mani nel variopinto bestiario politico portando a galla retroscena e curiosità, vizi e virtù di leader, che lo scrittore inglese Thackeray, incoronerebbe protagonisti di una grande “Fiera della Vanità” all’italiana.
Ci avvina a loro, a partire dalla biografia: l’esordio nel 93′ di Silvio Berlusconi (che da allora non ha smesso più di progettare partiti), il successo ante litteram dei due Matteo, entrambi scout ed enfants prodiges nei talk show Mediaset. Confronta l’exploit di Renzi diciassettenne, smanioso di rottamare i vecchi quadri di partito quando era ancora un giovane democristiano, con quello di Salvini, sfrontato e controcorrente, al punto da presentare la prima lista della Lega Nord alle elezioni dei rappresentanti del suo Liceo Manzoni, tradizionalmente a sinistra. Fino al ragazzo di Pomigliano d ‘Arco, Di Maio “con i capelli sempre curati”, come lo ricorda la prof delle medie, e andato incontro al primo fiasco politico alle elezioni del consiglio comunale del 2010, dove collezionò solo 59 preferenze.
Il direttore del Corriere tratteggia con minuzia persino i gusti letterari: la passione dell’ex Cavaliere per Erasmo da Rotterdam, l’ammirazione di Grillo per Gengis Khan, e poi i libri della formazione di Di Maio tra cui figura persino “Il libretto Rosso di Pertini”. Colora gli aneddoti di soprannomi, “Mat-teoria” come veniva definito Renzi dai compagni di scuola, o “Er Moviola” per Gentiloni, e passa al vaglio le manie per il look di ciascuno.
Imbastisce il racconto con i commenti di altri esponenti politici e la narrazioni di eventi rimasti fino ad ora, retroscena oscuri, come l’incontro avvenuto tra Renzi e Berlusconi, quando ancora era sindaco di Firenze: “Tu mi somigli” avrebbe detto con gioia il leader di Forza Italia all’Ex Rottamatore.
Mescolare l’utile al dolce – come dicono gli antichi – non compromette nel libro, l’acume d’analisi delle debolezze e degli errori fatali commessi dai leader scesi in campo. Puntuale nell’ultimo capitolo si abbatte la scure del giudizio finale: “Competenza, professionalità, sintonia con le aspirazioni degli italiani, selezione dei rappresentanti in base al merito” sono valori che per Fontana devono opporsi a “Leader che stanno sempre sul palcoscenico e ci stanno sempre più da soli”.
La «politica» – secondo Malagò, il presidente del CONI – «dovrebbe prendere esempio dal calcio: senso di squadra, costruzione della leadership sul campo e soprattutto rispetto del capitano della squadra opposta».
Critico Vito Crimi,senatore del M5S che punta il dito contro “la vecchia classe dirigente” che ha schiacciato un’intera generazione lasciando un vuoto nel mezzo, che solo oggi comincia ad essere colmato.
Ora come ora, per la deputata romana della Lega Barbara Saltamartini serve invece una “Rivoluzione del buon senso”: la vera sfida è velocità di azione e comunicazione e “l’unione tra coloro che hanno maturato esperienza politica nel corso degli anni e i giovani che hanno passione e sogni da vendere”.
Chiudere il giro di interventi è toccato al deputato PD Luigi Marattin, per il quale la risposta alla paralisi istituzionale non potrà venire prima di aver sciolto l’interrogativo sul tipo di democrazia che l’Italia è oggi e vuole diventare in futuro.
Nel frattempo, non resta che aspettare. L’immagine che il fumettista Giannelli riserva alla copertina di “Un paese senza Leader” però, è piuttosto eloquente: parla di una classe politica in carrozza, sull’orlo del baratro. Serve qualcuno che prenda le redini prima che sia troppo tardi. Qualcuno che sia in grado di tenere a bada i cavalli imbizzarriti e decida, assumendosi la responsabilità, la meta precisa verso cui dirigerli. L’Italia non ha bisogno di cocchieri della democrazia.