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Home Editoriale

Guerra in Ucraina, perché Israele tenta la mediazione

Il gas russo, l’isolamento iraniano e il possibile ruolo dell’Italia

Gaetano Massara by Gaetano Massara
12 Marzo 2022
in Editoriale, Esteri
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Guerra in Ucraina, perché Israele tenta la mediazione
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Dai tempi della nascita dello Stato di Israele ci siamo abituati a vedere i rappresentanti della repubblica ebraica nel ruolo di belligeranti o di “parti” nelle dispute che lo hanno interessato. Nella vicenda della guerra in Ucraina, invece, il governo guidato da Naftali Bennett sta svolgendo il ruolo del mediatore tra Mosca e Kiev. Questo potrebbe rivelarsi prezioso ai fini del raggiungimento di una qualche forma di pace o al ristabilimento delle transazioni energetiche tra Occidente e Russia. Le ragioni dietro l’azione diplomatica israeliana sono diverse.

Il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è ebreo ed è colui che ha chiesto la mediazione del governo israeliano. A partire dall’invasione russa, molti dei 200.000 ebrei ucraini hanno iniziato a rifugiarsi in Israele. Inoltre, una porzione consistente dell’opinione pubblica israeliana non ha accettato l’azione violenta di Putin e vorrebbe che il governo si schierasse chiaramente con il Paese aggredito.

D’altra parte, circa il 17% della popolazione di Israele è composta da ebrei russofoni. Il legame speciale tra Israele e Russia è anche dimostrato dal fatto che mentre Mosca riconosce il diritto di libero ingresso ai cittadini di Israele, per entrare negli Usa invece questi hanno bisogno del visto. Inoltre, quando nel 2014 Washington ha sollecitato la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha condannato l’annessione della Crimea alla Russia, Israele si è astenuta dal voto, infrangendo così la consuetudine di votare in sintonia con gli Usa al Palazzo di vetro. Episodio che si è ripetuto dopo l’attacco della Russia all’Ucraina, che ha visto il governo dello Stato ebraico prendere le distanze dalle sanzioni occidentali contro Mosca e dalla proposta di risoluzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per una condanna dell’azione russa, limitandosi all’invio di aiuti umanitari agli ucraini.

Ma ci sono due ragioni esistenziali che inducono lo Stato ebraico ufficialmente all’equidistanza tra Mosca e Kiev ma in realtà a pendere più dalla parte della Russia: le minacce provenienti dalla Siria e le forniture energetiche russe all’Europa. Esse conducono nella stessa direzione: la Repubblica islamica dell’Iran. Riavvolgiamo un attimo il nastro per capire come siamo giunti alla situazione attuale.

La Siria “russa”

La Siria è di fatto un satellite russo, specialmente dopo la liberazione del Paese dall’Isis grazie all’intervento delle truppe di Mosca. Tuttavia, l’influenza iraniana sul Paese arabo rappresenta una minaccia diretta per Israele, che non può tollerare il traffico di armi dirette agli hezbollah libanesi o il rischio di attacchi terroristici provenienti dal territorio siriano. Per disinnescare tale minaccia, l’aeronautica israeliana effettua incursioni regolari nello spazio aereo siriano. Ma per farlo deve coordinarsi con gli ufficiali russi, con i quali c’è una comunicazione costante. In altre parole, Israele non può permettersi di perdere la copertura russa alle sue incursioni. Anche perché la Russia stessa gioca il ruolo di ago della bilancia nel rapporto conflittuale tra Israele ed Iran. Infatti, da un lato Mosca vende armamenti all’Iran, a Hezbollah e ad Hamas, ha costruito il reattore nucleare iraniano di Busheir ed ha in piano di construirne altri otto. Inoltre, la Russia ha sempre ufficialmente condannato il preteso diritto israeliano di difendersi dalle minacce alla propria sicurezza, e Putin potrebbe consentire al Presidente siriano Assad di utilizzare i sistemi di difesa antiaerea S-300 venduti all’esercito siriano o addirittura i più avanzati S-400 dislocati nella base russa di Laodicea. Dall’altro, nella realtà la Russia vede di buon occhio le azioni israeliane contro obiettivi filoiraniani in Siria, che Mosca vorrebbe essere un satellite amministrato in esclusiva. Ed inoltre ha interesse ad estromettere l’Iran dai contratti per la ricostruzione della Siria.

Le sanzioni all’Iran

La seconda ragione esistenziale per Israele è emersa in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha messo in moto il meccanismo delle sanzioni contro Mosca e riportato l’attenzione sulla possibilità di sostituire le forniture di idrocarburi russi con quelle di Stati fino ad oggi considerati pariah, tra cui Iran e Venezuela. Ciò implicherebbe la riattivazione del Piano d’Azione Congiunto Globale (PACG, c.d. Accordo sul nucleare) tra l’Iran e i membri del P5+1, con la revoca delle sanzioni contro Teheran e l’uscita della repubblica islamica dall’isolamento. La Russia è parte del P5+1, il gruppo di Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (insieme ad Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina) più Germania e Unione europea. Israele spera che l’accordo non sia riattivato.

Nota a latere: l’Italia non è parte del gruppo di Paesi negoziatori nonostante la sua indiscussa fedeltà ai valori atlantici e onusiani e i buoni rapporti con Israele e con Teheran. Quest’ultima avrebbe visto con favore la partecipazione di Roma, con la quale prima delle sanzioni c’era un vivace interscambio commerciale, specialmente in idrocarburi iraniani e tecnologie italiane.

La storia delle sanzioni internazionali all’Iran è relativamente recente. La repubblica degli ayatollah fondata nel 1979 nacque in seguito alla rivoluzione contro lo scià di Persia, sostenuto dall’Occidente ed in particolare da americani e inglesi. Già all’indomani dell’avvento della repubblica islamica, l’occupazione dell’ambasciata americana di Teheran e il sequestro di ostaggi americani portarono all’adozione delle prime sanzioni internazionali contro l’Iran. Sanzioni furono di nuovo introdotte nel 1987 come reazione agli attacchi terroristici subiti da navi statunitensi e di altri Paesi che incrociavano nel Golfo persico.

La terza ondata di sanzioni è stata imposta nel 2006 in seguito al rifiuto iraniano di attenersi alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che imponeva a Teheran di interrompere il programma di arricchimento dell’uranio, che secondo i Paesi occidentali e la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) aveva come fine ultimo la costruzione di armi nucleari. D’altra parte, la repubblica islamica non ha mai nascosto la sua speranza di «spazzare via lo Stato sionista dalla faccia della terra». Per fiaccare il regime teocratico, queste sanzioni vietano, tra l’altro, le importazioni di idrocarburi dall’Iran e gli investimenti esteri nell’industria petrolifera e gasiera del Paese.

Un compromesso è stato raggiunto nel 2015 con il Piano d’azione congiunto globale, col quale Teheran si è impegnata a ridurre le sue scorte di uranio arricchito a non più di 300 chilogrammi (riduzione del 98%), a contenere l’arricchimento di uranio entro il tetto del 3,67% di purezza e non costruire nuovi impianti ad acqua pesante per 15 anni, a ridurre di due terzi le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e non superare tale livello per 13 anni, e a concentrare per 10 anni le attività di arricchimento dell’uranio in un solo impianto, che non potrà essere più moderno di un impianto di prima generazione. L’AIEA potrà ispezionare tutti gli impianti. In cambio del rispetto di queste condizioni, le sanzioni sono state rimosse.

Nel 2016, primo anno dalla revoca delle sanzioni, i proventi delle esportazioni di petrolio hanno rappresentato circa il 40% delle entrate del bilancio statale iraniano e la repubblica islamica era tornata ad essere uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio.

Ma due anni più tardi, la decisione di Donald Trump di revocare l’adesione degli Stati Uniti e dei suoi alleati all’accordo e reintrodurre le sanzioni, con la motivazione che avrebbe negoziato termini più vantaggiosi, hanno fatto crollare di nuovo le esportazioni e la produzione iraniane di prodotti petroliferi.

Senza denunciare il patto, la risposta di Teheran è stata di contravvenire ai limiti in esso contenuti. Secondo la AIEA, oggi l’Iran arricchisce l’uranio fino ad un livello di purezza del 60%, un livello pericolosamente vicino a quel 90% necessario per fabbricare armi nucleari, ed ha scorte di quasi 3.200 chilogrammi di uranio arricchito. Inoltre, dal febbraio 2021 Teheran non consente agli ispettori della AIEA di visionare le registrazioni delle telecamere di sorveglianza.

Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, i negoziati per la riattivazione di un PACG aggiornato sono ripresi. Gli iraniani hanno sostenuto per mesi che debbano essere gli Usa a fare il primo passo eliminando le sanzioni e impegnandosi a non ritirarsi dall’accordo una seconda volta in caso di cambio di amministrazione. Ma questo è un impegno che nessun presidente americano può prendere. D’altra parte, Teheran ha bisogno dello sblocco delle proprie esportazioni di idrocarburi ma deve anche decidere se vale la pena impegnarsi con un accordo contenente clausole che scadono tra soli tre anni.

In realtà, non si può dare torto al Segretario di Stato americano Antony Blinken quando dice che «l’uscita dall’accordo è stata un grave errore. Essa ha fatto riuscire dal cilindro il programma nucleare iraniano che eravamo riusciti a mettere sotto controllo. E’ nel nostro interesse riattivare l’accordo». Infatti, approfittando dell’uscita americana dall’accordo, la repubblica islamica non solo ha potuto eccedere i limiti tecnici a cui si era impegnata ma ha anche potuto sviluppare competenze nella gestione delle centrifughe ed ora può pretendere una clausola migliorativa che le consenta di tenere nel territorio nazionale il materiale nucleare e le centrifughe a garanzia contro il rischio di un nuovo recesso da parte di Washington.  In questo senso l’amministrazione americana sembra più dialogante rispetto al governo israeliano: Bennett ha detto chiaramente al cancelliere tedesco Scholz in visita in Israele che lo Stato ebraico si sta preparando ad affrontare scenari molteplici e che auspica che le sanzioni contro l’Iran vengano prorogate.

Gli idrocarburi iraniani

Con le terze maggiori riserve mondiali di petrolio e le seconde maggiori riserve mondiali di gas naturale, l’Iran è una superpotenza energetica di cui non è possibile non tener conto nella definizione delle strategie di approvvigionamento europee.

Prima dell’entrata in vigore delle sanzioni sulle esportazioni reintrodotte da Trump, l’Iran produceva 3,8 milioni di barili di petrolio al giorno (bpg), produzione successivamente crollata a 1,9 milioni di bpg e risalita negli ultimi mesi a 2,4 milioni di bpg di cui circa un milione di bpg esportati clandestinamente alla Cina, alla Siria e al Venezuela.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha aumentato le previsioni di consumo mondiale di petrolio per quest’anno al livello ineguagliato di 100,6 milioni di bpg. Dal lato dell’offerta ci sono però delle strozzature: i produttori OPEC non aumentano la produzione ai livelli necessari, la produzione di petrolio da scisto texano non può essere aumentata, almeno nel breve termine, e da ultimo è uscito dall’equazione il petrolio russo soggetto a embargo. Quindi ci sarebbe domanda per assorbire il greggio iraniano, specialmente con il prezzo del barile sopra i 100 dollari come in questi giorni. Il problema è che dopo anni di produzione sotto il livello di capacità e di mancati investimenti nella manutenzione e nello sviluppo dei giacimenti iraniani, riportare la produzione ai livelli del 2017-2018 richiederà tempo ed investimenti per 160 miliardi di dollari. Tuttavia, secondo gli analisti la forbice tra domanda e offerta di petrolio iraniano potrebbe essere ridotta nel breve termine dando fondo agli 85 milioni di barili di scorte accumulate nei depositi iraniani off-shore e on-shore, mentre l’esperienza del 2016 (quando le sanzioni sono state revocate) insegna che in meno di un anno l’Iran è stato capace di aumentare la produzione di quasi un milione di barili aggiuntivi al giorno. Inoltre, Russia e Arabia Saudita preferiscono che il rientro del petrolio iraniano nel mercato avvenga in modo graduale in modo da non causare scossoni alle produzioni e al prezzo.

Per quanto riguarda il gas naturale, la repubblica islamica non ha finora svolto un ruolo da protagonista nei mercati internazionali. La produzione interna viene quasi interamente assorbita dai consumi interni e l’esportazione attraverso gasdotto ad Iraq e Turchia è addirittura diminuita a causa dei deficit infrastrutturali. In prospettiva il gas iraniano potrebbe però rappresentare una fetta del ventaglio di fornitori dell’Europa, sostituendo il gas russo e dando un importante segnale psicologico per il ribasso dei prezzi.

Il nesso tra l’accordo sul nucleare iraniano e le sanzioni alla Russia

Con l’inasprimento della contrapposizione in Ucraina, il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov ha collegato la riattivazione dell’accordo sul nucleare iraniano alle sanzioni contro la Russia, affermando che il suo governo vuole «garanzie almeno al livello di Segretario di Stato» che le sanzioni Usa non avranno effetti sulle relazioni di Mosca con Teheran, mettendo così una pesante ipoteca alle speranze iraniane di revoca delle sanzioni e di un accordo che fino a qualche giorno fa sembrava probabile. L’intenzione russa è probabilmente quella di dare un segnale al mercato che gli idrocarburi russi non sono rimpiazzabili facilmente e far così aumentare il prezzo di petrolio e gas e allo stesso tempo tenere unito il blocco antioccidentale.

Blocco che all’inizio di febbraio ha visto la firma di due accordi che fanno perno sulla Cina. Il primo è l’accordo di cooperazione politica ed economica tra Cina e Iran, con validità di 25 anni, a seguito del quale Pechino ha riaffermato la sua opposizione a sanzioni unilaterali (americane) contro l’Iran e ha sostenuto la riattivazione del PACG del 2015. Il secondo è l’accordo russo-cinese.

La replica di Blinken all’omologo russo non ha potuto che essere di «irrilevanza» della richiesta di quest’ultimo in quanto l’accordo sul nucleare iraniano e le sanzioni contro Mosca sarebbero questioni «completamente differenti».

La dipendenza dal gas russo e l’auspicata iniziativa diplomatica italiana

A meno di qualche novità, non sembra quindi che un accordo sul PACG verrà raggiunto presto e che si possa dare fondo agli idrocarburi iraniani per soddisfare la fame di gas dell’Europa. Nel breve termine, alternative al gas russo che siano quantitativamente adeguate ed economicamente competitive non sembrano essere a nostra disposizione. C’è quindi da augurarsi che la guerra finisca al più presto, che una soluzione diplomatica e condivisa venga raggiunta e che le forniture di gas russo all’Europa tornino ai livelli di prima dell’invasione russa – almeno in attesa dell’attuazione di una strategia energetica europea che ci affranchi dalla dipendenza dagli “Stati canaglia”.

Dobbiamo sperare che il tentativo di mediazione israeliano abbia successo. L’Italia potrebbe unirsi allo sforzo diplomatico israeliano. Abbiamo ottime relazioni sia con Mosca (almeno così era prima della nostra adesione alle sanzioni e delle ritorsioni russe) che con Kiev che con Gerusalemme. Purtroppo, dall’inizio della guerra in Ucraina l’Italia non è riuscita a partecipare ai tavoli che contano: né al vertice Macron-Scholz-Biden né a quello Macron-Scholz-Xi, né a intraprendere iniziative parallele e complementari a quelle di Macron e di Scholz – per non parlare di quelle di Erdogan – con Putin. Urgono strategia e ambizione. Non si vive di sola economia.

Gaetano Massara

Tags: #gas#petrolio#politicaenergetica#politicaestera#politicaesteraitaliana#politicamediterraneaRussiaUcraina
Gaetano Massara

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