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Sul caso Artemisia, la psicoterapeuta Baiocchi: “Femminicidi e violenza relazionale? Il problema non è il maschio”

L.M.B. by L.M.B.
26 Ottobre 2025
in Attualità
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Sul caso Artemisia,  la psicoterapeuta Baiocchi: “Femminicidi e violenza relazionale? Il problema non è il maschio”
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Un appello alle istituzioni: la violenza non si combatte con letture di parte

Il recente caso del Centro Antiviolenza Artemisia di Firenze (storica realtà della rete D.i.Re, espulsa per aver avuto il coraggio di accogliere un uomo vittima di violenza) riaccende il dibattito su una questione fondamentale: la violenza non ha genere.
Una vicenda che la dice lunga sul clima ideologico in cui ancora oggi vengono affrontati i temi della tutela e dell’ascolto delle vittime.
Su questo sfondo interviene la psicoterapeuta Antonella Baiocchi, specialista in criminologia, responsabile del Centro Anti Violenza Oltre il Genere (che dal 2020 accoglie anche uomini e persone LGBT vittime di abusi) e del CE.D.A.V.  (Centro Donne Autrici di Violenza), primo in Italia dedicato anche alla rieducazione delle donne autrici, oggi escluse dai percorsi di riabilitazione.

Questo documento si rivolge alla rete D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) ma anche al Sindaco di Milano, Beppe Sala, in merito all’intervento sul Corriere della Sera del 23 ottobre scorso, e  all’intero sistema preposto ad intercettare e contrastare la violenza: le forze politiche, le istituzioni pubbliche, la magistratura, le forze dell’ordine, le associazioni e i centri antiviolenza.

Destra e sinistra, pur animate da intenzioni meritorie, continuano a leggere il fenomeno della violenza in chiave unidirezionale e arcaica, creando discriminazioni, doppi standard e rischi di incostituzionalità. Ridurre la violenza a una questione di genere non la sconfigge: la perpetua. Le posizioni di figure come la senatrice Valente, la presidente di D.i.Re. Veltri, il giudice Roia e la magistrata Cristina Crespi ne sono esempio: pur difendendo giustamente le donne, ignorano la natura bidirezionale della violenza. Fino a quando non si riconoscerà che la violenza è una questione umana e relazionale, ove il genere del carnefice (e della vittima) è un fatto contingente, ogni riforma sarà parziale e discriminante.

Violenza: la fabbrica invisibile della violenza è l’analfabetismo psicologico
L’idea dominante associa la violenza al maschile e la vittimizzazione al femminile. È una semplificazione che tradisce la realtà e contraddice l’evidenza scientifica. Dalla ricerca e dalla pratica clinica [vedasi i saggi ‘La violenza non ha sesso‘ (Alpes, 2019) e ‘Abusi sui minori‘ (Alpes, 2025)] emerge un quadro diverso: la violenza nasce da un diffuso “analfabetismo psicologico” (incompetenza emotiva-relazionale), che genera “pensiero dicotomico” (100-zero, bianco-nero, vero falso, normale-anormale, giusto-ingiusto: in sintesi l’idea che esistano verità assolute, giusti e sbagliati, normali e anormali, essere convinti di conoscere la verità, chi ha ragione e chi ha torto ed ignorare il valore dell’opinabile, del relativo, del diverso), che induce a “discriminare” (ritenere sbagliato, ingiusto, anormale, chi ‘diverge’ dal ‘modello considerato vero-giusto-normale’) ed induce, necessariamente, alla famigerata “gestione dicotomica delle divergenze” (in sintesi il fallimento del reciproco rispetto, l’incapacità di affrontare le differenze riconoscendo all’altro pari dignità e valore umano). Con la “gestione dicotomica delle divergenze”, la divergenza può essere risolta solo con la soppressione di uno dei poli divergenti: necessariamente, l’interlocutore che si trova in posizione di potere (fisico, psicologico, economico, di ruolo, legale) pretenderà che l’interlocutore in posizione di vulnerabilità si conformi alla propria verità, innescando l’abuso e la violenza (arrivando fin anche ad uccidere). L’”analfabetismo psicologico” di chi è in posizione di potere è fondamentale per generare la violenza, in quanto, chi è psicologicamente ed emotivamente “alfabetizzato”, pur trovandosi in posizione di potere, non prevaricherà, ma tenderà a cercare di promuovere il “reciproco rispetto” e la mediazione. La gestione dicotomica delle divergenze crea vittime di Debolicidio.

Il ‘Debolicidio’: il filo rosso che lega le vittime di violenza dentro e fuori le mura domestiche
La gran parte delle vittime di violenza dentro e fuori le mura domestiche, sono legate da un medesimo filo rosso: essersi trovati in posizione di vulnerabilità/debolezza a divergere da qualcuno (uomo o donna che sia) il quale, affetto da Analfabetismo Psicologico, sarà incapace di rispettarlo e gli imporrà la “propria Verità” trasformando il dissenso in una condanna, se non otterrà conformazione.
All’interno del neologismo Debolicidio rientrano, senza gerarchie di valore, le diverse categorie di vittime: femminicidi, maschicidi, infanticidi, abusi su anziani, disabili o migranti, discriminazioni etniche e religiose, violenza economica e vittime LGBT.
Ogni categoria necessita di tutele mirate alla propria vulnerabilità, senza privilegiarne una sola. La soluzione non è scegliere chi proteggere, ma garantire strumenti personalizzati di prevenzione e rieducazione per tutti.

Dalle mura di casa ai conflitti globali: la stessa dinamica
La dinamica descritta non appartiene solo ai casi estremi di cronaca nera: attraversa ogni ambito della vita quotidiana, dalle relazioni intime alle istituzioni, fino ai grandi conflitti internazionali. È la stessa radice psicologica che trasforma la divergenza in minaccia invece che in occasione di confronto.

  • Il partner che uccide la compagna che lo ha lasciato non agisce “in quanto donna”, ma perché non tollera la libertà di scelta dell’altro: lui pretende che resti, lei decide di andarsene.
  • La donna che impone regole minuziose nella vita domestica e reagisce con insulti o aggressioni al minimo segno di disobbedienza, traduce la differenza in offesa personale.
  • Figli che eliminano i genitori per ottenere un’eredità, incapaci di accettare un “no” ai propri desideri.
  • Un genitore che punisce il figlio per il solo fatto di voler continuare a vedere l’altro genitore, esercita un abuso: la divergenza affettiva viene trattata come un tradimento.
  • La donna che, non ottenendo che il partner lasci subito la casa, reagisce con una falsa denuncia: un modo violento di forzare la realtà alla propria volontà.
  • Un datore di lavoro che umilia o isola un dipendente perché ha espresso un’opinione diversa.
  • Un insegnante che mortifica l’allievo “ribelle” anziché cercare di comprenderne il punto di vista.
  • Un gruppo politico che scredita o censura chi non si allinea al pensiero dominante.
  • Sui social, chi attacca e distrugge verbalmente chi dissente, invece di dialogare, replica la stessa logica di violenza simbolica.

E questa modalità di gestione del conflitto non cambia nemmeno su scala collettiva: la storia è un archivio di divergenze affrontate come guerre di potere.
Dalle crociate alle persecuzioni religiose, dai totalitarismi del Novecento alle attuali polarizzazioni geopolitiche e mediatiche, l’umanità continua a gestire la differenza con logiche di dominio: i nativi americani sterminati, gli ebrei perseguitati, i neri schiavizzati, gli omosessuali condannati, gli eretici bruciati vivi.

Un filo rosso che unisce tutto: la “gestione dicotomica delle divergenze”, ossia l’incapacità di riconoscere l’altro come pari.
La violenza, così, non nasce da un genere, ma da una mentalità che trasforma la diversità in colpa e il dissenso in un nemico da eliminare.

Finché questa prospettiva (spiegata naturalmente molto in sintesi) resterà ignorata, nessuna politica contro la violenza sarà davvero efficace.

Femminicidio: quando il termine diventa ideologia
Il termine “femminicidio” nasce per indicare l’uccisione di una donna in quanto tale, cioè per discriminazione di genere: ti uccido perché il genere femminile non dovrebbe esistere.
È la stessa logica perversa con cui gli adepti del Ku Klux Klan uccidevano le persone di colore in quanto nere, per discriminazione razziale.
Una lotta contro questo tipo di odio ha avuto certamente un senso all’inizio del nostro risveglio femminista, quando serviva a liberarci dalla condizione di vulnerabilità e subordinazione in cui le donne erano relegate.
Ma oggi, almeno nella nostra società “evoluta”, lo sguardo deve andare altrove: nella grande maggioranza dei casi, la violenza contro le donne nasce da conflitti relazionali mal gestiti, non da odio di genere, che sopravvive solo in contesti culturali arretrati o in casi patologici isolati, talvolta enfatizzati nella narrativa o nel cinema, come in opere tipo “Uomini che odiano le donne”.
Continuare a usare il termine in senso ideologico è fuorviante e alimenta un doppio standard: si dovrebbe usare il termine ‘femminicidio’ in senso neutro (‘uccisione di persona di sesso femminile’), senza più caricarlo di significati politici ed ideologici che oggi non hanno più senso.

Il mito del patriarcato: il genere maschile del carnefice è un fatto contingente
Che gli uomini abbiano storicamente detenuto il potere è indubbio, ma con la teoria del Debolicidio appare evidente che nel patriarcato il genere di chi prevarica è un fatto contingente: ciò che conta è l’analfabetismo psicologico di chi si trova in posizione di potere.
Oggi che le donne, rispetto a 100 anni fa, si sono evolute e disincagliate dalla sottomissione, è sotto gli occhi di tutti che quando vengono a trovarsi in posizione di potere (nella coppia, in famiglia, sul lavoro) prevaricano gli interlocutori in posizione di vulnerabilità, come hanno fatto per secoli prevalentemente gli uomini, replicando lo stesso schema discriminatorio che vogliono combattere. E questo accade “non in quanto donne” ma in quanto (come gli uomini) affette da “analfabetismo psicologico”.
Le cronache parlano chiaro: le violenze al femminile esistono e sono ben documentate, anche se spesso oscurate da una narrazione a senso unico. Portali come www.lafionda.com e www.uominibeta.org raccolgono centinaia di casi di cronaca verificati di violenze fisiche, psicologiche, patrimoniali, affettive e genitoriali agite da donne. Un materiale prezioso, che smonta il mito della violenza “di genere” e dimostra quanto essa sia invece una costante umana, trasversale a sesso, ruolo e status sociale.

Quando la legge discrimina: gli effetti collaterali della visione unilaterale
L’approccio unidirezionale ha prodotto strumenti discriminatori e talvolta incostituzionali: proposte di legge come la 577-bis rischiano di introdurre reati di genere con misure doppie; registri pubblici e TSO anticipati ledono le garanzie fondamentali; i fondi e i servizi pubblici si concentrano esclusivamente sulle vittime donne, ignorando uomini e persone LGBT; i centri per autori di violenza (CUAV) escludono le donne, negando loro la possibilità di riabilitazione. Queste misure colpiscono il sintomo, non la causa, e rendono inefficace la prevenzione.

Un nuovo paradigma per politiche non discriminatorie
Serve un cambio di prospettiva: riconoscere la bidirezionalità della violenza, garantire fondi e servizi per tutte le vittime, estendere i percorsi di rieducazione a uomini e donne, formare magistrati, forze dell’ordine e assistenti sociali all’alfabetizzazione psicologica, educare le nuove generazioni alla gestione empatica delle divergenze e assicurare pari garanzie processuali.

Conclusione: la violenza finirà solo quando smetteremo di discriminare
Destra, sinistra e istituzioni devono ripensare la lotta alla violenza: l’unidirezionalità è un errore scientifico, politico e morale. Solo il riconoscimento della complessità del fenomeno e l’investimento nelle competenze relazionali collettive potranno portare risultati concreti. È necessario un tavolo pubblico e multidisciplinare che includa tutte le realtà impegnate nella tutela delle vittime e nella rieducazione degli autori, per costruire una strategia nazionale equa e realmente efficace. Finché continueremo a combattere una discriminazione con un’altra, la violenza (dentro e fuori le mura domestiche) non avrà fine.

di Antonella Baiocchi, psicoterapeuta, specialista in criminologia, responsabile del Centro Anti Violenza “Oltre il Genere” (che dal 2020 accoglie anche le vittime dimenticate: uomini e persone LGBT) e del CE.D.A.V. – CEntro Donne Autrici di Violenza (aperto nel dicembre 2023), il primo spazio in Italia dedicato anche alla rieducazione delle donne autrici di violenza, oggi escluse dalla possibilità di riabilitarsi poiché i Centri Maltrattanti accolgono solo uomini).

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L.M.B.

L.M.B.

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