Di Antonella Baiocchi, Psicoterapeuta, Specialista in Criminologia, Responsabile del C.A.V. OLTRE IL GENERE (Centro Anti Violenza che accoglie gli esclusi dalla tutela: uomini e LGBT) e Responsabile del CE.D.A.V. (Centro Donne Autrici di Violenza) il primo in Italia che rieduca le donne autrici di violenza.
Negli ultimi tempi si è diffusa una tendenza inquietante: quella di spiegare, attenuare o persino comprendere atti di violenza, come se l’origine emotiva o politica di un gesto potesse renderlo meno grave. È un fenomeno culturale che mina le basi del vivere civile, perché trasforma la responsabilità personale in un’opinione, e la condanna morale in una scelta di schieramento.
Lo abbiamo visto in più occasioni.
- Quando, di fronte alla strage dei carabinieri di Verona, una rappresentante politica ha invitato a “comprendere” il gesto come espressione di disperazione sociale, si è compiuto un passo pericoloso: quello di trasformare l’analisi in assoluzione.
La psicologia serve a comprendere per prevenire, non per giustificare. Capire le dinamiche che conducono alla violenza non può e non deve mai significare spostare la colpa dalla mano che colpisce al contesto che la circonda. - Pochi giorni prima, un altro episodio ha mostrato il medesimo rovesciamento: il pubblico che applaude due donne condannate per l’efferato omicidio e smembramento del corpo di un uomo di trentacinque anni, padre di un bambino.
Un gesto di approvazione che lascia attoniti, e che testimonia un profondo smarrimento collettivo: l’eroismo attribuito alla rabbia, la giustificazione del delitto in nome del dolore. In questa logica perversa, la vittima scompare, l’assassino diventa protagonista, e la giustizia si dissolve nel relativismo emotivo. - La medesima incoerenza emerge quando si difendono occupazioni abusive o atti violenti etichettandoli come “necessità sociali”.
- E che dire del voto per garantire l’immunità parlamentare a chi è già stato condannato per violenza, in nome di un’appartenenza politica?
- E come non includere, in questo elenco di paradossi, la demonizzazione dell’uomo e la santificazione della donna, simbolo estremo di una cecità culturale ormai radicata.
Nel discorso pubblico la “tutela delle vittime” è diventata sinonimo esclusivo di tutela femminile, cancellando l’esistenza di oltre metà degli esseri umani vittime di violenza domestica, psicologica o relazionale: gli uomini e le persone LGBT.
Ridurre la violenza a un fenomeno maschile significa negare la realtà e perpetuare la sofferenza delle vittime invisibili.
Così facendo, la società finisce per tradire il principio costituzionale di uguaglianza e per alimentare, con le migliori intenzioni, una nuova forma di ingiustizia. - E, infine, un altro esempio emblematico di doppio standard morale: il silenzio o la giustificazione da parte di alcuni ambienti politici verso chi, in un contesto pubblico, ha definito “cortigiana” l’attuale Presidente del Consiglio.
Un insulto sessista che, se provenisse da uno schieramento opposto, avrebbe scatenato reazioni indignate e titoli a tutta pagina.
Invece, quando la mancanza di rispetto viene da “uno dei propri”, si minimizza, si ride, si volta lo sguardo.
È l’ennesima dimostrazione di una cecità selettiva che difende o condanna non in base ai principi, ma alle appartenenze.
La coerenza etica non dovrebbe mai essere una questione di partito.
Stiamo assistendo ad una cultura del “due pesi e due misure” che cerca prepotentemente di imporsi: una “pseudo cultura” che condanna con fermezza la violenza dell’avversario, ma chiude un occhio (o entrambi) quando si tratta dei propri affiliati e di confermare la propria ideologia.
È questa la massima espressione del doppio standard: la giustizia che, per proteggere qualcuno, smette di essere equa con tutti.
La responsabilità come unica via di civiltà
Da psicoterapeuta, vedo ogni giorno quanto la perdita del senso del limite generi comportamenti distruttivi.
Viviamo in un tempo che esalta la libertà ma rimuove la responsabilità, che giustifica l’impulso e disprezza la regola.
Eppure è proprio il limite (riconosciuto e rispettato) a rendere possibile la convivenza.
Educare al limite non significa reprimere, ma insegnare che la libertà senza responsabilità si trasforma in abuso, e che la compassione autentica richiede di prendersi carico delle conseguenze delle proprie azioni.
Ogni volta che la società sposta la pietà dal dolore delle vittime alla fragilità dei carnefici, arretra sul piano umano e civile: comprendere non è giustificare!
Solo una cultura capace di distinguere tra empatia e complicità, tra analisi e indulgenza, tra dolore e violenza, può dirsi davvero evoluta.
Fino a quando non sapremo difendere tutte le vittime (senza etichette, senza ideologie e senza doppi standard) continueremo a chiamare giustizia ciò che, in realtà, ne è la negazione.

















